Testo: Elia Zupelli
Foto: Irene Chioetto, Davide Sartori
Layout: Sofia Bianchera, Martina Calzi
Paolo Rossi, Roberto Baggio: Vicenza, Brescia, il mito. All’Osteria Pitanta s’intrecciano destini, ricordi, storie e memorie di due campioni e di due città. Tra cimeli, fotografie e ritratti a bombolette spray, fiumi di vino bianco, cicchetti e baccalà, tra sogni coronati e sogni infranti affiora un po’ di nostalgia per quella che Pasolini definì “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.
Lo vedi scritto su tutti i muri. Dipinto. Iconizzato. Impresso a bomboletta spray nei suoi tratti di campione glorioso e insieme di uomo popolare e discreto. Così descrive le “apparizioni” Guido Todescan esplorando le tracce visuali lasciate in città dai tifosi in memoria di Paolo Rossi, rivelando come il banale può diventare un intimo affresco di storia ed identità locale. L’immagine di piccole dimensioni, in tono minore, è a bassa intensità, anti-monumentale. Le campiture monocrome tratteggiano il viso, la maglia a larghe strisce bianche e rosse con collo a ‘V’. E poi c’è la “R” blu arrotolata, marchio della Lanerossi, all’altezza del cuore. Lo stencil è la riproduzione di una fotografia scattata nell’estate 1978 durante il ritiro a Ponte nelle Alpi, differente solo per minimi particolari dalla figurina Panini di quell’anno. Ciò che è interessante è che queste apparizioni non sembrano casuali: le immagini di Rossi sono vere e proprie bandiere, in grado di corroborare l’identità di luoghi specifici della città. Ma ancor più, sono piccole testimonianze di un centro cittadino che ha assimilato la storia calcistica locale all’interno del suo tessuto urbano”. All’Osteria Pitanta, in contra’ Santa Lucia, uno dei più classici ritrovi pre-partita, tappezzato di reperti e feticci calcistici, l’icona di Pablito protegge gli avventori come un nume tutelare, da sotto una mensola poggia-bicchiere; all’interno, tra fiumi di vino bianco, cicchetti e baccalà, svettano anche primi piani intensi di Roberto Baggio, Divin Codino da Caldogno, che profeta in patria nella sua Vicenza spiccò il volo agli inizi della carriera, per poi vivere una seconda epoca aurea nel Brescia di Carletto Mazzone, fiancheggiato in quelle stagioni dai vari Pep Guardiola, Andrea Pirlo, Luca Toni e prima ancora da Dario Hubner detto “il Bisonte” (“Senza grappa e sigarette sarebbe il più forte di tutti”, dichiarò epicamente il presidente del Brescia Gino Corioni in quell’annata magica 2000/01).
Eppure tutto iniziò molti anni prima, per entrambi: Rossi vestì la maglia del Lanerossi dal 1976 al 1979, lasciando reti insaccate e un segno indelebile; non meno Roby Baggio, che tra il 1982 e il 1985, ancora minorenne, segnò 16 reti in 47 partite con il Vicenza: “Quando ripenso, devo dire la verità, mi viene in mente più spesso, tra tutte le maglie che ho indossato, quello che ero al Vicenza. Perché mi ricordo che veramente ero, non voglio fare il presuntuoso, ma ero imprendibile. Poi invece quell’incidente mi ha segnato per la vita, come se mi fosse stato tolto qualcosa, purtroppo mi sono reso conto che non ero più lo stesso”, dirà il Divin Codino a proposito. Oltre ai trascorsi nel Lane, in comune i due hanno anche le esperienze con Juventus, Milan e Nazionale italiana. Sempre Roberto ricorderà nei suoi diari di vita: “Da piccolo la domenica andavo in bicicletta con il mio adorato papà Florindo a vedere giocare il Vicenza dove c’era Paolo Rossi e sognavo di diventare come lui. In inverno percorrevamo quasi 12 chilometri per arrivare allo stadio Menti partendo da Caldogno. Congelato, per tutta la partita mi aggrappavo alla rete per vederlo giocare e segnare. Guardando quell’attaccante gracile e coraggioso, già più forte di tre interventi alle ginocchia, ho cominciato a sognare anch’io e non ho ancora smesso. Se sono diventato calciatore lo devo a lui: non aveva un fisico perfetto, come me, però mi ha suggerito il valore prevalente del cuore e del cervello. Segnava un gol e la sua faccia si trasformava.
Guardava la folla in festa e rideva, come liberato dal peso di un macigno. Si capiva che era felice per noi, non fiero per la sua impresa”. Già allora leggenda, motivazione e ispirazione, come renderà atto ancora Roby: ”Erano gli anni in cui cullavo i miei sogni. Pensavo che un giorno avrei anche io giocato in quello stadio, che avrei indossato quella maglia bellissima con la grande R sul petto. Imitando Paolo Rossi avrei potuto realizzare quanto lui e riuscito a realizzare. Vincere un campionato del mondo in finale contro il Brasile. Come Paolo Rossi ha fatto contro la Germania. Vincere il Pallone d’oro. Come Paolo Rossi. Vincere sulla sofferenza di ginocchia doloranti. Come Paolo Rossi”. Il resto è storia. Luglio 1982, Italia Campione del mondo. “Avevo 15 anni e dopo la vittoria, con Pablito capocannoniere ed eroe di quel trionfo, sono venuto con gli amici a fare festa a Vicenza, in Corso Palladio. Quella notte ho deciso che avrei provato a diventare come lui. Ancor più emulare quello al mondiale ’82. È stata un’estate indimenticabile, dove ci ha fatto godere tutti quanti. Forse era anche quello il mio rammarico quando sono arrivato in finale e non ho potuto regalare quella gioia agli italiani perché l’avevo provata”. Tutta d’un fiato, in un turbine di emozioni, fino al lungo addio. 9 dicembre 2020, Paolo Rossi – “il ragazzo del gol”, “l’uomo della felicità”, “uno come noi” – se ne andò per sempre. Silenziosamente, in punta di tacchetti, per non fare troppo rumore. Com’era nel suo stile. Il Divin Codino riprese parola in una lettera aperta, non prima di aver premesso: “Penso che la mia sia l’ultima generazione dei bambini autodidatti, che passavano infanzia e giovinezza a prendere a calci un pallone per la strada, solo per giocare e divertirsi. Dico che oggi i ragazzi, fin dall’inizio, hanno a disposizione molti più dati per allenarsi e molti più schemi per trovare il loro posto sul campo. Crescono programmati. Noi improvvisavamo, non sapevamo niente degli altri: forse il problema dei piedi è aver perso la libertà di giocare senza pensare…La morte di Paolo Rossi per me sancisce la fine di quel nostro calcio. Il congedo fisico dall’amico che più mi ha ispirato. Non parlo dei trionfi pubblici, penso agli angoli bui della vita autentica. Di lui non mi seduceva la gloria, piuttosto l’amore speciale che la gente provava per lui. Ricordava l’amore materno. Commuoveva. Credo che questo sia dipeso dalla sua sostanza, che è stata sempre l’umanità”. Una virtù più unica che rara, oggi, forse, in ciò che resta di quel calcio che Pasolini definì “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.
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