testo: ELIA ZUPPELLI
layout: MATTEO BELLISSIMO
Numeri, crash bang, rapidi conteggi per andare altrove: lungo la Via del Ferro spirati da coincidenze solo apparenti, tra storia, ritualità, memoria collettiva e percezioni aumentate. Incontri ravvicinati con siderite, zolfo, anidride carbonica, battitura, processi di fusione…da Bovegno a Pezzaze, da Tavernole a Villa Carcina, “l’arte dei miscugli” è una perfetta formula alchemica che permette di riscoprire e aggiornare l’identità di un intero territorio.
24 ore in un giorno, 24 birre in un cartone. Moltobene numero 7, la Via del Ferro in 7 passaggi. Coincidenze? Certo che no. Ecco allora che nel pieno flusso di simbolismi e numerologia evocati in queste colonne non poteva mancare un ultimo excursus lungo le rotte spaziali e mentali della nostra tanto cara e amata Val Trompia, terra foriera di incontri ed esperienze costantemente ambientati lungo la sottile linea rossa dove tutto può accadere. Così, dopo il tanto vagare onirico e surrealista degli scorsi numeri, l’assonanza in questione ci ha imprevedibilmente suggerito un parallelismo tangibile e reale, per quanto a sua volta originale e singolare. Il riferimento è appunto alla Via del Ferro – itinerario caratterizzante che attraversa l’evoluzione delle attività estrattive e siderurgiche e le testimonianze lasciate dal passato produttivo fra i monti, lungo i corsi d’acqua, negli abitati, in un territorio che più di altri è stato investito negli ultimi decenni da una trasformazione radicale – e ai 7 passaggi che la scandiscono, degni d’esser approfonditi nella loro essenza più vivida e ancestrale, di cui tuttora permangono tracce evidenti e inequivocabili. A patto di sapersi orientare tra storia, ritualità e livelli di percezione multisensoriali annessi e connessi. La memoria del lavoro, che assegnò per secoli un ruolo di primo piano ai forgiatori e ai maestri di forno triumplini, è infatti radicata negli oggetti e negli edifici, negli strumenti, nei gesti e nelle parole che rappresentano vive testimonianze di un’esperienza secolare, richiamando una realtà la cui progressiva emarginazione non si è risolta in una cancellazione irreversibile. Proprio nella dimensione della memoria collettiva i territori come quello triumplino si sono resi conto di poter riscoprire e quindi aggiornare la propria identità. Da qui dunque la scelta di pubblicare il seguente vademecum, decifrabile come anticipato in rigorosissimo ordine numerico: un viaggio nello spazio e nel tempo capace di farci accostare alle tradizionali culture del lavoro triumpline, che è ancora una volta il ferro a unificare.
1 Creazione del carbone attraverso il cosiddetto “poiat”. Erano centinaia le persone impiegate per carbonizzare la legna nei boschi dell’Alta Valle e trasportare il combustibile fino ai forni. Con il termine carbonizzazione si intende la distruzione del legno col calore effettuata in ambiente povero d’aria. Il metodo più usato è la carbonaia verticale che in area lombarda è solitamente chiamata appunto “poiat”. Il processo di carbonizzazione del legno in una situazione montana iniziava con la creazione di piazzole circolari, chiamate “ial,” per la produzione di carbone vegetale. Queste ial venivano costruite spostando terra dal pendio sovrastante e utilizzate per diverse fasi di carbonizzazione senza la necessità di aprirne di nuove, grazie alla consistenza e porosità del terreno precedentemente utilizzato. La posizione delle ial era cruciale per garantire una combustione di qualità, evitando l’esposizione ad agenti atmosferici o a luoghi troppo umidi e ventilati. La protezione dalle correnti d’aria avveniva tramite teli appesi a pali o graticci di frasche. Queste ial dovevano essere posizionate vicino al bosco da cui proveniva il legno da carbonizzare ed essere preparate, livellate e pulite prima dell’uso. Anche dopo anni, erano riconoscibili grazie al colore nerastro del suolo.
2 Estrazione siderite e cernita dei materiali. La siderite è un carbonato di ferro, il principale e più importante minerale che veniva estratto nelle miniere dell’alta Valle Trompia. Per estrarre il minerale dal suo giacimento, era necessario abbattere la roccia dalla formazione a cui apparteneva, in modo da ottenere blocchi più trasportabili. In tempi remoti l’abbattimento avveniva interamente a mano, poi con gli esplosivi e negli anni Trenta con le perforatrici. Il minerale estratto era cernito direttamente in galleria: quello migliore veniva trasportato all’esterno, mentre lo scarto era utilizzato per costruire i muri a secco all’interno della miniera. A questo punto veniva sommariamente depurato dalla scoria rocciosa e suddiviso in mucchi, a seconda delle diverse qualità. Le miniere principali in Valle Trompia sono la Miniera Marzoli di Pezzaze, al tempo c’era uno stabilimento anche a Bovegno, e la Miniera S. Aloisio di Collio.
3 Torrefazione per eliminare lo zolfo e l’anidride carbonica. Il minerale estratto, prima di essere mandato agli altiforni per la trasformazione in ghisa e acciaio, subiva una prima cottura, o arrostimento, che da carbonato lo trasformava in un ossido di ferro. Questa operazione aveva un triplice scopo: eliminare gli elementi volatili come l’anidride carbonica e l’acqua; rendere più facile la successiva riduzione, poiché l’eliminazione delle sostanze volatili rendeva il minerale meno compatto e più poroso; togliere, con la combustione, eventuali tracce di zolfo. Tutto iniziava dalle miniere: i lavoranti entravano, spaccavano la pietra, portavano fuori il materiale con dei carrelli e poi, nel piazzale, anche i bambini e le donne, spaccavano i grossi pezzi in pezzi più piccoli e venivano cotti in fornini (forni piccoli e bassi) chiamati regane, in pietra alti circa 5 metri, eliminando così zolfo e anidride carbonica. Dopo averlo cotto il minerale pulito dalle scorie veniva trasportato su carri trainati da muli verso i forni. Qui venivano buttati dall’alto della torre insieme al carbone, alternandoli.
4 Il forno di Tavernole. Uno dei forni “iconici” della Valle, veniva alimentato dal carbone a legna, versato e fuso fino a 1300 gradi nel canecchio, insieme al minerale, da due “ministratori”, che usavano ceste di forma e capienza diverse. Si ottenevano così dei cottoni di ghisa pesanti, duri e fragili. Per lavorarla bisognava cuocerla nuovamente perché, insieme al ferro c’è il carbonio e se lo si diminuisce si ottiene l’acciaio. Gli oggetti decorativi potevano essere fatti in ghisa, mentre chiodi e attrezzi del lavoro venivano fatti in ferro dolce. Nel forno lavoravano principalmente otto persone, che quando era acceso vivevano al forno perché non lo si poteva spegnere per almeno tre mesi.
5 Trasporto A fine Ottocento e inizio Novecento il forno dava lavoro a una ventina di operai e a un numero imprecisato di carbonai. I carri pieni di materiali, trattati al forno, venivano trasportati dai carri trainati da animali negli stabilimenti della Bassa Valle. Di fronte al crescente traffico di merci e di persone che dava forte impulso all’economia della Valle, si cominciò a pensare che era giunto il momento di prolungare la linea del tram che arrivava da Brozzo fino a Tavernole. Tra il 1898 e il 1900 la Provincia si accordò con la “Tram ways à vapeur” per la prosecuzione della linea fino al forno di Tavernole. I lavori iniziarono nel 1898, ma nel frattempo l’economia della valle stava cambiando. Con la delocalizzazione delle attività minerarie in America Latina, il forno di Tavernole non produsse più lo stesso quantitativo di merci. Si era convinti però che il tram, anche se meno sfruttato, avrebbe offerto un avvenire più prospero alla comunità. Il tram infatti divenne amico della popolazione, il trambusto dei passeggeri che scendevano verso le città e di quelli che risalivano in valle animava le strade e le osterie. Nel 1934 il traffico fra Gardone-Tavernole, ritenuto non più economico e causa di vari problemi tecnici, fu sospeso e sostituito con autoservizi. Nel 1938 la provincia procedette alla rimozione dei binari. La restante linea rimase attiva fino all’aprile del 1954, mentre il suo disarmamento avvenne nel corso del 1956.
6 Battitura con il maglio | 7 Lavorazione La battitura al Maglio di Sarezzo prevedeva l’uso di tre magli, sostanzialmente simili nella struttura ma diversi per rendimento e funzioni. Il maglio centrale serviva per battere i pezzi e trasformarli secondo la forma desiderata. La stessa funzione aveva anche il maglio più grande, più lento e più potente. Accanto a questo maglio è collocato il forno così da ottimizzare il tempo di lavorazione nei quali si riscaldavano i pezzi in lavorazione. L’altro maglio aveva un’ulteriore funzione. Sulla testa e sull’incudine erano montati degli stampi, che imprimevano la curvatura necessaria ai vomeri, mentre, grazie ad un getto d’acqua che il forgiatore faceva cadere sul ferro rovente, si otteneva l’eliminazione delle scorie e la lucidatura del pezzo. Si trova anche una trancia, che serviva a rifilare il pezzo appena lavorato allo stampo. Il bilanciere, invece, era un tipo di pressa con la quale si piegavano i versoi con l’aiuto di uno stampo. Per la piegatura dei manici dei coltri si doveva ricorrere invece al grane bilanciere. La pesantezza del lavoro, ma anche la pazienza che il suo apprendimento richiedeva, sono fra le ragioni che hanno portato alla conclusione della sua attività. La giornata lavorativa al Maglio cominciava per tutti quasi un’ora dell’accensione del maglio: occorreva infatti scaldare accuratamente le tenaglie, che altrimenti il calore avrebbe danneggiato.
Oggi il Museo I Magli di Sarezzo e il Maglio Averoldi di Ome vi aspettano per raccontarvi la loro storia, viva e vivida attraverso le tappe di un’escursione non convenzionale.
LABA – Libera Accademia di Belle Arti
Via Don Vender, 66 – 25127 Brescia Italia
tel: +39.030.380894
info@laba.edu
P.IVA IT 03095100982
PEC laba@legalmail.it – segreterielaba@legalmail.it