L'antro della pizia

Testo: Sara Benaglia e Mauro Zanchi

Layout: Beatrice Taschini

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Visto che hai mostrato grande interesse per le arti esoteriche, saremmo interessati ad approfondire con te alcuni argomenti e rimandi che hai inserito nella trama e nell’ordito delle tue opere. Cosa rappresenta per te l’iniziazione, sia nella sfera della vita quotidiana sia per quanto riguarda la ricerca artistica, e come ti rapporti con le metafore e le allegorie della trasmutazione alchemica?

 

Meris Angioletti: Nel suo libro La ragazza indicibile (2010) sulla Koré e i misteri di Eleusi, Agamben parla di un’iniziazione all’indicibile dell’esistenza, che mi sento di declinare come una forma di balbuzie, uno spazio linguistico incerto tra il detto e il non ancora articolato, dove il dire risuona delle sue possibilità vibratorie più che semantiche. Questa quasi lingua nella lingua è portatrice di un discorso sotterraneo, favoloso, risonanza di una caverna ventriloqua, una caverna gastrica, che ricorda l’antro delle profetesse greche, che venivano definite appunto “engastrimythe, coloro che parlano e raccontano dal ventre”. Un parlare senza movimento di labbra, uno spostamento d’aria all’interno dell’atanor, il forno alchemico, che mi pare sia anche chiamato forno digestivo (four à digéstion).

 

SB+MZ: Evochiamo qui un’alchimia che mette in azione trasmutazioni, scintille e bagliori nel buio. Quale è (e da cosa è costituita) la tua camera oscura, il luogo in cui inneschi il momento magico di un’apparizione immaginale?

 

MA: Per il quarto capitolo di Onirocritica, un laboratorio sull’esperienza del sogno lucido collettivo che porto avanti da qualche anno, avevo proprio lavorato ad una serie di esercizi per imparare a vedere al buio. Lasciare che le pupille si adattino all’oscurità, strizzare gli occhi, affidarsi al tatto e lasciarsi portare dai suoni, dalle voci delle persone che insieme a me conducevano il laboratorio e leggevano estratti di alcuni racconti e libri scelti per l’occasione. Credo che il suono e le parole possano indurre una visione extra-retinica, un’esperienza del vedere più profonda. Non so più dove David H. Lawrence scrivesse che l’orecchio può ascoltare più in profondità di quanto gli occhi possano vedere. Lasciarsi condurre nel buio diventa un modo per lasciar apparire delle immagini collettive.

 

SB+MZ: Che cosa pensi dell’artista come medium? Pensiamo ad Hilma af Klimt, soprattutto. Potremmo considerare la tua opera in quest’ottica, in cui tu e il tuo lavoro siete il tramite per accedere ad un flusso spirituale e di sapere?


MA: Mi piace pensare alle opere e allə artistə come aggregazioni ad alto valore energetico, come accidenti e declinazioni vibratorie capaci di condensare esperienze spirituali e cognitive e agevolare un processo collettivo e di condivisione. Trovo in questo senso il lavoro di Hilma Af Klint e l’esperienza medianica particolarmente intensi perché aprono ad una comunicazione immediata, corporea, ma allo stesso tempo profonda e conoscitiva, ad una circolazione di liquidi. Il luogo dell’opera si sposta nello spazio tra i corpi, negli scambi energetici e trasformativi che si instaurano tra i vari elementi, come antenne. Il termine di eggregora, che nello spiritismo definisce un’entità incorporea generata da energie psichiche collettive, mi sembra possa identificare questo tipo di esperienza artistica.

SB+MZ: Ci parleresti delle origini del pensiero e del linguaggio che prendono corpo come fenomeno fisico, temi che hai trattato in Aussicht (2008), opera video dedicata al poeta tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1843), che trascorse gli ultimi 35 anni della sua vita in completo isolamento e follia, all’interno di una torre posta vicino al fiume di Tubinga, continuando a scrivere poesie? 

 

MA: Aussicht è un lavoro di tanto tempo fa, ma che riguardo ancora con molto affetto: ho un bellissimo ricordo della giornata autunnale a Tubinga durante le riprese e ritrovo la germinazione di alcune immagini e domande che mi animano ancora oggi. La natura delle immagini mentali, lo spazio come guardiamo dell’esperienza psichica, la capacità della voce, in questo caso quella del fisico Valentino Braitenberg, di dettagliare, analizzare, creare parole e allo stesso farne vibrare l’ombra, la fragilità intrinseca a questa stessa esperienza del parlare. In questo senso il linguaggio della poesia e quello della fisica diventano forme di incorporazione, esperienze somatiche.

 

SB+MZ: Come si formano le immagini, i concetti e i pensieri nella mente, e come vengono veicolati e trasformati da chi si affida all’arte per tradurli formalmente? Tu come ti poni nel flusso tra visione, prima idea, elaborazione, svolgimenti, derive, approdo all’opera finale?

 

MA: Ogni forma d’arte è per me il risultato di una co-creazione, di un parlare e di un essere parlata. Scelte stilistiche o formali che chiamiamo intenzionali possono essere viste come il frutto di un incontro, di un vociare, con la materia, con unə artista (metterei la schwa) del passato, con la traiettoria del volo di un uccello o ancora, alla maniera di Robert Barry, con qualcosa che sta accadendo nell’inconscio, percepito dai sensi, ma che non ha ancora raggiunto la coscienza. L’ascolto di questi legami, che mi sento di dedicare a Giordano Bruno, permette di fare un passo di lato rispetto ad una visione antropocentrica del fare e pensare l’arte.

 

SB+MZ: Come tratti il suono nelle tue sperimentazioni?

 

MA: Nei miei primi film sonori volevo creare un vuoto, un’assenza dell’immagine, perché mi interessava che il film avesse luogo altrove, nell’immaginazione di uno schermo di luce bianca, per esempio. Riducendo le informazioni visive, ma lasciando intatto il suono di una potenziale scena di film, si creava uno spazio vacante popolato da immagini interiori, che implicava un ruolo attivo da parte delle spettatrici e degli spettatori per l’esistenza del film. Questo vuoto col tempo ha accolto le possibilità immaginative della sfera acustica, la capacità del suono di attraversare i corpi, di accompagnarli dove gli occhi non possono vedere. Per me si è aperto un mondo di ascolto profondo, di emissione sonora, di affetti e movimenti – il piacere di ascoltare ed emettere suoni insieme – o ancora di risonanze fonetiche e linguistiche. Il suono delle lingue, soprattutto delle lingue che non conosco, umane ed extra-umane, crea uno spazio musicale dentro il linguaggio, un ritmo, che mi sta accompagnando verso l’esplorazione e lo studio delle teorie di composizione musicale, delle possibilità compositive delle parole. Penso per esempio a Thema – Omaggio a Joyce, di Luciano Berio o ad alcune composizioni per voce di Morton Feldman o ancora ai vocalizzi di Meredith Monk.

 

SB+MZ: Come si è articolato negli anni il tuo archivio di ricercatrice in merito alle modalità di traduzione del linguaggio nella comunicazione orale? Che cosa è per te la voce, in che modo vibra? Come usi la voce nelle Conferenze espanse?

 

MA: La voce è per me il momento di incorporazione e trasmissione del pensiero, del linguaggio che transita nel corpo, facendo vibrare le parole per scompaginarne l’ordine semantico. È un luogo del materno, della lingualatte come la definisce Hélène Cixous, in cui suono e nutrimento afferiscono ancora indistinti a un’oralità che bagna il linguaggio umano nella phoné, nel suono del mondo, prima ancora di declinarsi nell’ordine paterno del logos, del significato. Ma questo contatto epidermico con la phoné non è nella voce una regressione, ma piuttosto un’ibridazione, un parlare altro, uno spettro della parola, che vibra dicendo, che conosce cantando. Adriana Cavarero, nel suo libro “A più voci. Filosofia dell’espressione vocale”, che per me resta un alleato fondamentale nel mio posizionarmi e riflettere rispetto alle ricerche sulla voce, descrive molto bene questo “essere tra due” proprio, per esempio, del canto delle Sirene, esseri ibridi per eccellenza. Mettendosi dalla parte delle Sirene, e non solo di Ulisse uditore unico e privilegiato, Cavarero ne attualizza il mito e rivendica l’atto di emissione vocale non solo come unicità ontologica e relazionale delle parlanti, ma anche come forma di un sapere polimorfo, plurale, collettivo, oracolare. Un sapere che si trasmette, come in una catena magnetica, da un corpo all’altro, per risonanza. Per questo motivo a un certo punto ho sentito la necessità di espandere le parole e i testi, facendo ricorso a delle conferenze performative, dove il discorso, transitando l’organicità della voce e del corpo, potesse incontrare la sua ombra, assorbire la potenza e i sussurri di una formula magica.

 

SB+MZ: Il suono, gli arcani dei Tarocchi di Marsiglia, l’astrazione, il richiamo alla teosofia, alle forme-pensiero di Annie Besant e Charles D. Leadbeater, il circo, il theremin, il cinema espanso sono tra le forme che informano la tua ricerca sui meccanismi di percezione, memoria e psiche. Come muta il tuo mondo artistico nel tempo?

 

MA: Quando lavoro a un progetto una rete di legami, più o meno consci, inizia ad attivarsi, generando alleanze, compagnie di viaggio che mi aiutano a tessere una cartografia variabile di operazioni poetiche e psichiche. Come dicevo, il fare artistico è un atto di co-creazione, un mondo popolato di personaggi, reali o di finzione, a metà strada tra invenzione e scienza, fantasmi che tornano a visitare il presente, storie occultate per voci a venire, teorie bislacche o dimenticate in attesa di essere portate alla luce.



SB+MZ: Ci potresti parlare delle tue opere che creano un ponte tra due linguaggi, per esempio tra quello verbale e quello visuale? Ci riferiamo a quello spaziotempo in cui prendono forma immagini dal potere evocativo delle parole o prendono corpo racconti e interpretazioni da figurazioni, allegorie, simboli visuali.

 

MA: Qualche anno fa avrei parlato a proposito di queste corrispondenze tra linguaggi di un di un processo di traduzione, di passaggi quasi protocollari che permettessero di passare da una forma all’altra. C’era una dimensione più analitica in quel tipo di tessitura, un desiderio di seguire fino in fondo un protocollo fondato su una logica tutta sua fino a delle conseguenze trascendentali. Penso a Sol Lewitt, seguire logicamente un’idea nella sua illogicità, forse fino a un punto di rottura completamente imprevedibile. Era questo il metodo che avevo messo in atto, per esempio, nel video π, dove, attraverso l’applicazione di nozioni di mnemotecnica rinascimentale, traducevo numeri in associazioni di immagini e queste immagini in gesti. Ora, nel contesto dei laboratori di voce, mi piace a volte proporre “una traduzione fatta con i piedi”, cioè tradurre da una lingua sconosciuta all’italiano, per esempio, seguendo solo i suoni, le assonanze, il ritmo delle frasi, capaci di creare un senso completamente nuovo e generare immagini inattese. È una forma morbida del protocollo, più esperienziale, che si avvicina alla metamorfosi.

 

SB+MZ: Hai recuperato la tecnica della sciadografia per studiare l’irradiamento piuttosto che la forma degli oggetti. Che cosa hai intuito attraverso questo tipo di sperimentazione?

 

MA: Il termine di irradiamento è estremamente pertinente per descrivere questa esperienza, perché si ricongiunge visivamente a quello spazio tra le opere fisiche e le persone in cui dimora per me l’esperienza artistica. Avevo voglia di tornare in camera oscura, di toccare le immagini, di fabbricare e trafficare con la materia, per cercare nella fotografia, o in quello che era sembrato essere stato il mio rapporto con la fotografia, qualcosa di più liquido, metamorfico, legato alla capacità della materia di trasformarsi attraverso la luce, di diventare altro, infrangere i confini tra un corpo e l’altro, uno stato fisico e l’altro.

 

SB+MZ: Che cosa rappresenta per te il medium fotografico?

 

MA: Ogni tanto ripenso al fatto che ho una formazione in fotografia, a cosa mi avesse spinta o incuriosita in quella specializzazione. Ogni tanto mi sento lontana anni luce da quell’esperienza, anche se recentemente ho lavorato ad una serie di fotografie. Sono immagini che testimoniano l’interazione con sculture “per membra fantasma” che ho realizzato all’interno di un progetto di laboratori di voce sul racconto e la memoria di vicende di persone disperse in mare. Queste sculture riproducono alcune delle ossa che vibrano quando emettiamo un suono e sono realizzate in polvere di conchiglie e resina, si ascoltano con le mani, toccandole – come se il mare raccontasse una sua versione delle storie, che non si può ascoltare con le orecchie. Mi sembra che la fotografia abbia proprio a che fare con il contatto, con la pelle delle cose.

 

SB+MZ: Il tuo lavoro si deposita in installazioni luminose o sonore, proiezioni video o di diapositive, immagini e colori, fotografie. La relazione tra spazio fisico e mentale è sospinta dalle tue opere per indurre nello spettatore “visioni interiori”. Qual è il tuo metodo operativo e come lo hai affinato?

 

MA: La visione interiore dell’opera rimane per me l’esistenza ultima dell’opera stessa: è quello che succede quando siamo in risonanza con un’opera che me interessa e che per me in ultima istanza è l’opera. In questo senso ho capito che è necessaria una certa complicità, un desiderio tra spettatorə e opere che ha bisogno di tempo per affermarsi, affinarsi. Così cerco di creare contesti di riposo, mostre che possiamo vivere guardando il soffitto, annoiandoci, accarezzando stati di rêverie, perché è in quel momento che l’opera inizia ad agire, come un fungo allucinogeno, e a creare un legame sotterraneo, un dialogo che può essere udito e interpretato solo in quelle precise condizioni psichiche. Un lavoro più cosciente sul tempo, quindi, ma anche sulle energie che entrano in circolazione. Penso, per esempio, alla gioia che produce il fischiare insieme, come nel laboratorio/performance Orbiculaires, tessere legami di reciprocità, attraverso il puro piacere di emettere un suono, unico per ciascunə, in risonanza con lə altrə, in una comunità di parlanti che è un’affermazione viva della presenza, che per me ha un grande potere energetico e rivoluzionario.   

 

SB+MZ: A cosa stai lavorando ora?

 

MA: Alla scrittura della mia tesi di dottorato di ricerca/creazione sulla voce e ad un ricordo d’infanzia. Quando ero bambina mia nonna Carla mi portava spesso alle Ghiaie, a Bonate Sotto, luogo all’epoca di importanti apparizioni mariane. Questo cielo blu dove non mi è mai apparso niente, cullata dal salmodiare di donne, spero diventi un laboratorio vocale e una composizione per voci. E mi piacerebbe dedicarmi a una traduzione collettiva in francese del libro di “A più voci” di Adriana Cavarero.