testo: Luisa Goglio
Io dico: via Milano è meticcia. Non solo, banalmente, per la grande quantità di cittadini immigrati da varie zone del mondo che ne popolano i dintorni. Lo è perché cambia faccia ogni pochi metri, mischiando senza scomporsi lusso e degrado, kebab e archeologia industriale, esperimenti e tradizione, prostituzione e un prossimo teatro stabile, spaccio e iniziative sociali. C’era qui una storia di vita popolare, di fabbriche e lavoro che a un certo punto puf, è sparito, lasciando vuoti i giganteschi capannoni (sinistre cattedrali ancora in vista) e un ambiente circostante non troppo salubre.
Ma noi l’abbiamo percorsa guardandola con gli occhi dell’oggi, e per inclinazione professionale ci siamo soffermati sulle insegne dei negozi, sulle vetrine, sulle facciate, sugli intonaci scrostati, sui colori, sui caratteri. Non servono grandi discorsi, il racconto è tutto qui da vedere.
Dice Giovanni: “Per anni ho attraversato questa via di notte in bici e poi in macchina, tornando in città da ovest, ho alcune salde amicizie qui. Ho conosciuto realtà nate dal basso come la scuola Sì Musica e l’associazione Via Milano 59, che aggregano e fanno cultura nel quartiere. Sento pronunciare su questa strada giudizi inequivocabilmente razzisti, ma sempre da parte di persone che non ci vengono o non ci vivono. In realtà via Milano è centrale, colorata, viva, caotica.
Il caos, appunto, categoria che il designer ha in odio, se non sapientemente assemblato. Le insegne e le vetrine dei numerosi negozi etnici presenti qui come altrove sono, accademicamente parlando, l’emblema del kitsch. Chi di noi si arrischierebbe in lettering così assortiti, in affastellamenti di parole incuranti di ogni griglia e regola percettiva codificata?
No, qui il designer non ci ha messo mano, è un “fai da te” ibrido che contamina il gusto extraeuropeo per i colori accesi con materiali industriali poveri: le lettere adesive, la plastica, i pannelli a luci intermittenti con scritto “aperto”, sempre aperto, anche a tarda notte. E tuttavia diviene inequivocabilmente brand, racconta perfettamente ciò che offre: promiscuità di merci – le lombate di agnello assieme ai narghilé –, sapori esotici, drappi di seta coi lustrini, odore di spezie, la commistione del bazaar.
Fanno eccezione alcune bellissime insegne dipinte a mano. Fa eccezione anche il logo di Caliente Fashion, l’emporio cinese che dissimula le proprie origini dietro un nome caraibico e una scritta in un allegro e rassicurante fatface graziato. Più meticciato di così si muore, ma mescolando e contaminando si va verso qualcosa che ancora non sappiamo. Che finirà forse per cambiarci un po’ il gusto.
Dice CJ: via Milano è nuova e sorprendente. Alcuni imprenditori hanno scommesso sulla riqualificazione e sono comparsi negozi d’élite e locali gourmet. Sembra che funzioni, qui non manca il glamour e predomina la finta ruggine del corten. Ma resistono anche una ferramenta degli anni ’50, uno storico colorificio e uno spicchio di lussureggiante facciata liberty inspiegabilmente incastrata tra due modesti edifici popolari, con ruggine vera sulle volute floreali del balcone.
Per Roxanne è esotica, fantasiosa, irregolare. Spiando nel cortile interno di una casa di ringhiera dice “sembra Cuba”. Ma anche la Romania, aggiunge Thomas. Sembra via Padova a Milano. Sembrano gli anni ’70, coi murales dipinti sulle assi alle Case del sole. Sembra il dopoguerra (qualunque dopoguerra). Sembra oggi e domani.
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