testo: ELIA ZUPELLI
Fotografie: LIAY C-JAY, DAVIDE SARTORI, VALENTINA FUSI
Goliardico, esoterico, etnologico: un tuffo a testa nel folklore del Carnevale di Bagolino, tra enigmatiche bautte, costumi grotteschi, palpate ai genitali e antiche ritualità canzonatorie-propiziatorie tramandate nei secoli. Unico in Italia e nel mondo, crocevia di sacro e profano, di Màscher e Balarì, di vino e formaggio, un sabba ancestrale che beffa la realtà e regala emozioni palpitanti, ma esige il rispetto di un culto.
Una maschera nasconde la faccia, ma libera l’anima. Una maschera dice sempre la verità. Per questo inquieta, fa paura, provoca turbamenti, sottende anarchia, induce stati di ordinaria alterazione. Concede persino il lusso di un’identità parallela completamente anonima e quindi sfuggente, libertina, viziosa e peccaminosa, scorretta, spregiudicata, depravata, in fondo in fondo – talvolta – pure cattiva. Perfida. Luciferina. Sì certo, come no…e poi chissà mai che altro. Quante buffonate! Via che dopotutto è solo uno scherzo. Una burla del Modigliani. Atto sincretico del beffare la realtà con sommo gaudio e grottesco spirito. Perché a Carnevale tutto vale e a Bagolino lo sanno bene. Anzi benissimo. “Dal 1518”, azzardano senza esitazione le memorie storiche del borgo valsabbino. Dove il folklore carnevalesco dopo un paio d’anni d’intorpidimento generale causa effetti collaterali della pandemia si è finalmente ridestato con ebbrezza poderosa lo scorso febbraio, rispolverando i bollenti spiriti sotto sotto mai sopiti da cinquecento anni a questa parte. Proprio sulle tracce di quella delibera comunale che disponeva di “ricompensare con una forma di formaggio la Compagnia di Laveno intervenuta a rallegrare la festa di carnevale”, come suggeriscono gli scritti d’antan ancora oggi conservati nell’archivio comunale.
Rivaleggiando col formaggio Bagòss quanto a celebrità pop e in quanto simbolo per antonomasia del territorio e della sua comunità di circa quattromila anime, il Carnevale bagosso si accende nelle travolgenti atmosfere di ritualità ancestrale tra sacro e profano e per una manciata di ore lungo le vie del paese tutto par lecito. Caotico e pittoresco. Anche se tutto segue un copione “scientifico”, calibrato al millimetro e profondamente radicato nella tradizione. Soprattutto quando di mezzo ci sono i balarì, maschera bianca con bautta nera tipica del carnevale locale: figure eleganti ed enigmatiche, fasciate in abiti austeri e sofisticati dalle livree multicolori, con un velo nero che nasconde la capigliatura, pantaloni al ginocchio, scarpette nere e ampi cappelli minuziosamente adornati in raso rosso, oggetti preziosi e decorazioni dorate, a evocare gli antichi mercanti o signori che salivano dalla città in epoca medioevale, come appena usciti da una festa a castello in aria di “Eyes wide shut”. Ogni connotato anagrafico e sociale sparisce, evapora: sotto il vestito niente. Potrebbe esserci chiunque là dietro e in quella misteriosa evanescenza sta il bello. Il fascino dell’inatteso. Contemporaneamente si materializza una dimensione allegorica. Carnascialesca: tanto per i locals quanto per i (tantissimi) visitatori l’esperienza è all’inizio straniante, poi diventa totalizzante e sciolte le briglie addirittura entusiasmante, un po’ come sgattaiolare in un universo parallelo riservato ai più felici. Le scorribande impazzano, tempo di cavalcare l’onda. Giornata tipo dei balarì: sveglia all’alba, colazione del campione in osteria, messa propiziatoria alla chiesa di San Giorgio mentre ancora il sole deve salire fra i monti, brodino caldo che può accompagnare solo e l’avventura può iniziare ormai…da lì in poi sarà una sarabanda senza sosta di danze, violini e ritmi tribali, propiziati dai “sonadùr” che li accompagnano nel loro lento incedere, delineando quello che Italo Sordi definì ““un fenomeno unico in Italia e con pochi equivalenti in tutta Europa e fornisce un esempio impressionante del livello di complessità cui può giungere una civiltà musicale popolare”.
Da lì in avanti, fino alla fine della festa, l’unica divagazione concessa saranno le fermate strategiche davanti alle case dei parenti e delle fidanzate per rendere omaggio del prestito dell’oro che ogni “balarì” chiede per decorare il proprio sontuoso cappello. In altre parole e all’atto pratico: garbata irruzione negli altrui domicili, brindisi in punta di bicchiere al vino rosso, fetta di salame tagliata alte, scaglia de formai e poi via nuovamente in pista a capofitto. Tutt’altra vita (agra) è quella dei “màscher”, l’altra figura prototipica del Carnevale di Bagolino: con costumi ispirati alla miseria del mondo contadino de na òlta e camuffamenti facciali a guisa di vecchi e di vecchie – torvi, sfiancati e mezzi moribondi -, essi vagano per le vie del paese e con fare bitorzoluto e goffe posture, agiscono preferibilmente in piccoli gruppi, tormentando i passanti con palpate canzonatorie ai genitali come negli antichi rituali di fertilità, rumore di zoccoli dalla suola chiodata che scalpitano sul selciato e battiti di sgalbèr. Rispetto all’armonia dei balarì, il loro è un frastuono ramingo e mefistofelico, un lento e penoso deambulare parodia della tristezza e della miseria del duro vivere fra i monti, non senza un sottofondo vagamente esoterico-etnologico: gli sberleffi dei màscher intendono infatti esorcizzare quelle stesse paure legate alla vita selvatica in quota, in povertà e in isolamento, nonché scongiurare l’inverno rigido, cacciare gli spiriti e la malasorte. Ecco allora che quelle grida in falsetto e quel vociare convulso assume tutt’altre sfumature, cerimoniali quasi, senz’altro fortemente simboliche e benauguranti, a dispetto dei toni truci e filibustieri che ne caratterizzano le maldestre sembianze estetiche. Fra le due maschere sembra non scorrere rivalità o sangue amaro: semplicemente s’ignorano. Ognuna fa il proprio decorso. Che dura gli stessi giorni ma con una leggera differita sul potenziale sincronismo, visto che i màscher preferiscono scendere nelle strade solo a tarda mattinata, giusto in tempo per riprendere conoscenza dopo i bagordi della notte precedente (un paio di sorsate potenti di liquore elisir “Socher Amar”, prodigioso infuso del posto dove lo zucchero si unisce a sedici tipi di erbe, radici e bacche di montagna, basteranno a dar loro la giusta carica nefasta). A Bagolino non esistono altri tipi di maschere. O meglio non sono contemplate, tantomeno ammesse, benché non esista un “decreto” ufficiale. Dunque è vivamente consigliato ai vari Arlecchino, Pulcinella e Balanzone, per non parlare delle più fantasiose derive carnevalesche contemporanee, di starsene altrove. Magari a Venezia o in qualche altra bella città: qui la storia comanda e la diffidenza non s’è mai estinta. Eppure ovunque è un’esplosione di joie de vivre: i bar traboccano di giovani, di brindisi e goliardia, i ristoranti esondano di tavolate festanti e polenta fumante, le botteghe schiumano, il sindaco e il parroco gongolano. Dopo i tempi di bui del Covid, le famiglie sono tornate ad abbracciarsi: generazioni e generazioni di bagossi doc hanno finalmente ritrovato la loro festa prediletta e così le migliaia di turisti accorsi per inalarne a pieni polmoni l’essenza di sabba radicale e sconsacrato, unico in Italia e nel mondo, che regala emozioni palpitanti ma esige il rispetto di un culto.
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