Intervista con Enrico Baleri Un autentico designer dice:

Testo: VALERIANO IOSCA

Fotografie: GIULIA MARTINELLI, DAVIDE SARTORI, ALICE RUBAGOTTI, SAMANTHA RAGNOLI, LISA CARMINATI

Mauro Zanchi: Ti ringrazio per averci invitato a casa tua, nella valle di Astino, che pare un pezzo di Toscana volato come uno piccolo stormo di semi fiorentini nella terra bergamasca. Circondati dalla tua accoglienza generosa, da tutti gli oggetti di design e dalle opere che costellano gli interni della tua casa, saremmo pronti per farci condurre a ritroso nel tempo, nei tuoi ricordi, per dare di nuovo corpo e spazio agli incontri con persone che hai stimato e frequentato. Il tema di questo numero di Moltobene è legato agli incontri nei bar, nei Cafè, nelle trattorie e nei ristoranti, quindi ti pongo domande riferite a questi argomenti. Nei mesi scorsi mi hai già narrato alcuni episodi della tua vita e quindi parto da alcune suggestioni che sono rimaste nei miei ricordi. La prima domanda è collegata alle sedie popolari dei bar e ci porta al tempo in cui frequentavi Gianni Belotti, il tuo maestro, amico, e anche compagno di bevute.

Enrico Baleri: Conosco Gianni Belotti perché al Politecnico mi affidano una tesi d’esame sul suo lavoro e in particolare sull’edificio straordinario che si colloca a due passi dalla Triennale, in via Canova. Ne rimango affascinato. Gianni Belotti si ostinava a dichiarare in facciata dei suoi edifici le funzioni che si svolgevano all’interno e a esaltarne travi, pilastri e plinti per raccontare il loro messaggio in modo didascalico. Durante un’intervista nel suo studio scopro una sedia piena di polvere che faceva il verso alle sedie popolari dei bar di periferia con quel cordoncino elastico in PVC. Quella sedia mi racconta una geometria rigorosa accostata a una contemporanea soluzione del ritmo, dichiarato proprio da quel cordoncino elastico, e mi innamoro a prima vista di quell’oggetto e della sua anima. Messa in produzione dal mio Centro Ricerche (1969) diventerà il mio cavallo di battaglia e la mia medaglia d’oro perché, riattualizzata con un cordoncino pieno, traslucido, colorato, sottile e con alcuni ritocchi alla struttura, diventerà un bestseller mondiale e verrà esposta nella collezione del MoMA insieme allo sgabello della stessa collezione, denominata dagli americani “Spaghetti Collection”, e nei magnifici spazi del Guggenheim di New York, in una mostra dedicata alle icone dell’estetica italiana curata da Germano Celant.

MZ: Ricordo un altro tuo racconto, un incontro fortuito mentre eri con amici a parlare di arte in una trattoria bergamasca. Come conoscesti Arturo Benedetti Michelangeli?

EB: Una sera sono a cena con gli amici “baracconi”, tutti artisti bergamaschi impegnati che mi trascinano spesso fuori per confronti intellettuali.  È il 1968, e io mi sono sposato da poco. Siamo alla Colombina, una trattoria ancora oggi in attività sulle colline di Bergamo Alta; polenta, brasato, casoncelli, tutti allegri terminato il vino e prossimi al grappino. Arriva lui, nell’immancabile maglione a collo alto, slanciato, tutto nero, sembra uno dei Gufi. Al bar chiede un grappino. Gli sorridiamo, ci sorride, gli facciamo segno verso il pianoforte vecchio e scordato, i tasti consumati tra legno e avorio, lui disinvolto si siede e si mette a suonare e a cantare con tutti noi. Tra un grappino e l’altro si tira notte, lui ci dirige in coro con i canti della montagna, non ci dice come si chiama, non ne ha bisogno, ma tutti abbiamo il dubbio che sia una controfigura. La sera dopo vado a sentire il suo concerto a Bergamo. Lui esce tutto vestito di nero, non più il maglione, di rigore il frac dalle lunghe code. Guarda la platea con aria inquisitoria, ascolta e ascolta il pubblico, zittisce tutti di paura, si aggiusta il seggiolino, sta per attaccare, le sue mani sono già sul pianoforte… Un colpo di tosse! La povera signora vicino a me, prime file di platea, che non era riuscita a trattenersi, si fa piccola piccola perché lui senza vederla la osserva, la scruta, la terrorizza. Toglie le mani dalla tastiera, innervosito si stira ripetutamente le dita. La signora è praticamente scomparsa facendosi scivolare lungo le poltrone. Lui sta nuovamente per attaccare, un altro colpo di tosse. Veramente stizzito si alza e se ne va. Panico! Tutti ammutoliti, silenzio di tomba. Dopo alcuni minuti, anche troppi, riappare. Non degna il pubblico di uno sguardo, con molta calma si risiede, si riaggiusta il sedile, si scioglie le dita e comincia a suonare. Il suono è così bello e limpido che la sala sembra chiusa in una bolla, isolata da ogni impurità esterna… Non ricordo il programma ma non potrò mai scordare quel concerto e la vigilia di follia; e la sua incredibile capacità di vestire due abiti diversi. Benedetti Michelangeli a quei tempi viveva in Franciacorta, in una grande casa in mezzo alle vigne; ora da tempo è di proprietà di un mio amico che fa bollicine insuperate, il meglio della zona: sono certo che Arturo ne avrebbe bevuto volentieri.

M.Z.: Nel tuo libro Lassù tra gli dei c’è la narrazione di un altro incontro casuale a Marrakech, nella primavera 2004, un incontro che è avvenuto dopo un pranzo al ristorante Dar Yacout. 

E.B.: L’amico Mario Arlati stava realizzando un’opera importante per un lussuoso “riad”, tipica residenza all’interno della Medina. Oltre che artista di talento, è anche proprietario della più famosa trattoria milanese, dove tutti i musicisti, i personaggi dello spettacolo, gli artisti d’avanguardia, i grandi manager sono di casa. Mi consigliò autorevolmente: “Vai al Dar Yacout, è un’ottima cucina”. Telefono subito. Il primo posto libero è a fine giugno; richiamo più tardi, con voce più decisa: peggio, i primi di luglio. Non mi sono mai arreso in vita mia e all’ora di cena mi presento all’ingresso, con Marilisa e un amico farmacista e buongustaio. Ci riceve all’ingresso un uomo di mezz’età bellissimo, alto, magro, estremamente elegante in un caftano rosso scuro bruciato. Ci scambiamo un lungo reciproco sorriso d’intesa, non una parola e ci accompagna al centro della sala da pranzo, a un tavolo rotondo tutto per noi. Una musica d’atmosfera suonata dal vivo da basso, batteria e chitarra accompagna la nostra sorpresa per tanta inattesa bellezza. Ci troviamo davanti un’architettura a dir poco straordinaria, un’interpretazione raffinata e colta delle tradizioni e dello stile arabo trasposti in un linguaggio internazionale. Vorrei incontrare chi ha fatto questo capolavoro. Il proprietario mi dice: “Abita in Medina da sempre, si chiama Bill Willis. Se vuole le do il numero di casa, dica pure che gliel’ho dato io”. L’indomani lo chiamo. Bill Willis ha una voce ferma e gentile: “Domani non posso, ma può venire stasera stessa per un aperitivo, le va bene alle sei? Segua queste istruzioni: vada all’hotel La Mamounia, si rivolga al portiere e si faccia chiamare il mio autista. La porterà da me, sa, un espediente di riservatezza perché sto nella Medina”. Willis abita in una casa bellissima, uno spazio di sogno. Sento risuonare nell’aria la voce di Maria Callas, glielo dico, lui dice no, questa è Mariella Devia, forse la sua migliore emula e allieva e mi confessa che gli sarebbe piaciuto sentire la Callas dal vivo. Io gli racconto che l’ho sentita a Bergamo nella Lucia di Lammermoor con mio padre, quando avevo dodici anni. “Maria non l’ho mai sentita cantare”, mi dice, “ma l’ho conosciuta sul panfilo Cristina, un lungo viaggio indimenticabile nel Mediterraneo…” Quella casa, ci spiega, era un harem reale. Lui l’ha semplicemente adattata alle sue esigenze e al suo gusto. Ricchissima di dettagli, di colori, di ceramiche bianche e nere: tutto perfetto, ogni spazio, la distribuzione di centinaia di oggetti ciascuno al suo posto. Niente rumore, ovunque profumo di sandalo, spezie e fiori. Profumo di buono e di armonia che viene dal giardino al primo piano. Lui ha appena perso il suo giovane compagno, un male inesorabile. Ha il cuore a pezzi, era un ragazzo bellissimo e lo vediamo nelle fotografie che sono sparse ovunque. Ci fa servire un buon aperitivo e ci parla di lavoro, di storie di vita, di successi, di architettura.

MZ: Non ti sei mai fermato di fronte a un’impossibilità o a un divieto. Ci racconti come sei riuscito a entrare alla Scala senza avere un biglietto per vedere Rudolf Nureev ? 

EB: Nel 1990, di luglio, tutto esaurito alla Scala per Il lago dei cigni con le coreografie inedite di Rudolf Nureev, che egli stesso interpreta nel duplice ruolo di Wolfgang/Rothbart, non potendo più danzare la parte di Sigfrido. L’ultima volta che il teatro milanese lo vedrà ballare nel suo capolavoro. Di necessità virtù: non posso perdermelo nel mio balletto preferito, lui, Nureev, che avevo già incontrato e conosciuto a New York e a Capri, magnetico nel volto e nel corpo nonostante la malattia che già lo divora, più che l’età… Con impudenza mi mescolo alla gente che ostenta il biglietto per la serata, arrivo al foyer e incontro una maschera che mi sorride dal corridoio dei palchi: la raggiungo e senza neanche parlare mi apre a sorpresa il palco di proscenio, quello dove in pratica hai l’illusione di stare in scena anche tu con gli artisti. Ma è un vero scherzo da prete: da lì tutto l’incanto e la bellezza dei ballerini, delle coreografie, quella sera così speciali, la perfezione, il fascino erotico dei protagonisti, il carisma di Rudolf, le scene e i costumi, tutto scompare perché tu sei lì con loro, li senti sbuffare, gemere, ansimare, sudare, imprecare, bisbigliare, il tutù rammendato, i fuseaux con le macchie e i buchi, i piedi sporchi… Poi visto da un lato, dal fianco destro, del balletto scompare ogni composizione coreografica, il ritmo, l’armonia, la simmetria obbligata, il sincronismo. Tutto dipende dal punto di vista. Nureev, in quelle parti di secondo ballerino e visto da un angolo tanto insolito, fa tenerezza, perché gli leggi in viso la sua storia, l’indomabile temperamento, l’insofferenza per la severità sovietica, che avrebbe frustrato ogni suo naturale istinto a primeggiare. Forse se la sognava ogni notte quella mattina in aeroporto, a Parigi, quando si beffò del KGB, che voleva rimpatriarlo con una scusa, e fuggì in Occidente per sempre. Troppo carisma, troppa vitalità, troppo eros per assecondare un regime, uno qualsiasi. Fu lo tsunami che la danza aspettava per abbattere la barriera tra classico e moderno. Come lui ne nascono due, al massimo tre in un secolo.

MZ: Ora ci volgiamo verso altre direzioni, più legate alle tue frequentazioni con i fuoriclasse del Design. Cosa ti ha trasmesso Enzo Mari?

EB: Mari ha rivoluzionato il concetto di design, realizzando una sorta di “utopia democratica”: disegnare oggetti belli e utili per la gente comune, invitandola anche a un ruolo meno passivo, perché in fondo progettare “corrisponde a una pulsione profonda dell’uomo, come l’istinto di sopravvivenza, la fame, il sesso. Siamo una specie che vuole modificare il suo ambiente”. Un’utopia che gli lascerà qualche amarezza e si trasformerà in una severa denuncia del progressivo degrado del progetto odierno. Enzo era un uomo sempre incontentabile e insoddisfatto del suo lavoro e delle sue ricerche, distributore di dubbi, che diceva di non sapere cosa fosse il design, ma poi con mano magnifica creava progetti memorabili. Era capace di suscitare spazi magici con una semplice tastiera di lampadine, oppure trasformare una banale lastra in animali e pesci, meraviglia dei bambini. È stato un instancabile sperimentatore di linguaggi visivi, un innovatore del design e del gioco per l’infanzia, un grande critico e animatore del dibattito sul design. Ciò che lo infastidiva di più era che si puntasse soprattutto al profitto, perché per lui il design era tale solo se rispondeva a reali bisogni dell’uomo, al di fuori delle ragioni e dei condizionamenti del mercato, solo se comunicava conoscenza. “Un progetto deve nascere quando quello che vediamo fuori dalla finestra ci appare orrendo, sbagliato o falso”, diceva.

MZ: Ci racconteresti qualcosa a proposito della torre sonora di Alessandro Mendini e della torre dei venti di Bruno Munari?

EB:  Quella di Mendini è una torre che emette sonorità civiche, le voci dei pescatori, i canti serali, i rumori della città, suoni ingegnerizzati da Davide Mosconi. Mendini non ha mai smesso di considerare l’uomo al centro del progetto: partiva sempre dalla persona per arrivare alla definizione degli oggetti come elementi capaci di trasmettere gioia, piacere, e degli spazi come rappresentazione della dimensione psicologica di chi li abita. Adotta un linguaggio ironico, divertente, colorato, come un gioco aperto a “influssi, riflussi e alchimie”, per usare le sue stesse parole, espressione di un “design neo-moderno” che riconosce, piuttosto che ignorarlo o rifiutarlo come si è sempre fatto, il valore, l’importanza del “banale” e del kitsch nella ritualità quotidiana della gente comune. La fantasia, soprattutto rivolta al mondo dell’infanzia, occupava un posto centrale nella sua filosofia estetica. 

Munari ebbe l’incarico di progettare giochi per bambini in un asilo del quartiere Monterosso, quasi tutte case popolari. Lui pensò qualcosa che non c’è: una torre dei venti meteorologica. Libeccio, grecale, scirocco, maestrale, ponente, pressione, temperatura, umidità… I bambini entusiasti sono allenati a un gioco intelligente: osservare, misurare, capire, controllare la natura. Le maestre sono tutte incantate, ma Munari dirà profetico: “Sono certo che questo gioco durerà poco”. In effetti oggi nessuno ricorda questo progetto, ma bisognerà riscoprirlo. Quando, molti anni dopo, Stefano Fumagalli, gallerista intraprendente e lucido, gli dedica, sempre a Bergamo, una mostra antologica, ricordiamo insieme quell’esperimento, e ancora mi commuove ripensare alla sua semplicità, alla sua dolcezza fuori dal tempo. Per la mostra gli mando un mazzo di rose rosse, poi per giorni la mia assistente mi dirà che qualcuno mi cerca insistentemente senza lasciar detto il nome, vuol parlare direttamente con me. Finché mi trova, sono passate settimane, era proprio lui e voleva ringraziarmi delle rose.

MZ: Passiamo dal profumo e dalla bellezza spinosa delle rose a un estratto dal ribes nero. Se pronuncio le parole Ribes Nigrum cosa ti torna in mente?

EB: Un giorno Ettore Sottsass mi chiama al telefono: “Qui c’è una sedia tutta per te, solo tu puoi produrla, ti aspetto oggi?”. “No, domattina alle 11 sono in studio da te.” Il giorno dopo (era Il 22 maggio 2003, trovo la data annotata nel diario che tengo da sempre), arrivo in via Melone a Milano, nello studio Sottsass e Associati: entro e lo vedo, un vero kouros, come l’aveva ritratto Sambonet, un uomo senza età e senza tempo, di grande fascino. Ma si lamenta di un raffreddore che non lo molla da giorni e allora io, come spesso faccio, mi improvviso medico, scendo e cerco in una farmacia un prodotto fitoterapico che fa miracoli e lo costringo a prendersi subito le prime gocce di Ribes Nigrum, un ottimo antistaminico naturale. Quando passiamo a parlare della sedia decidiamo immediatamente di chiamarla Ribes. Guardo con attenzione il progetto, c’è già un prototipo in resina; senza particolari novità ma lontano dalle fantastiche chimere variopinte di Memphis, apparentemente elementare ma con tutta la carica intellettuale degli oggetti disegnati da Sottsass. Aveva un solo difetto: era stato concepito senza l’altra metà, l’imprenditore, e quindi mancava di alcune caratteristiche fondamentali legate alla coerenza della collezione, la compatibilità con le tecnologie già acquisite, il mercato di riferimento, tutti parametri imprescindibili per la riuscita di un progetto all’interno di un marchio. Purtroppo quel progetto, forse l’ultimo di quel tipo per Ettore, era destinato a non vedere la luce e a rimanere nel mio archivio, nonostante tutta l’autorevolezza di chi l’aveva disegnato.

MZ: A cosa si riferiva Tomàs Maldonado quando parlava di “terza cultura”?

EB: Ciò che contraddistingue la sua biografia intellettuale è la ricerca della trasversalità in diversi campi del sapere. Questa tendenza è stata una costante del suo percorso di studioso e di artista. Maldonado chiamava questa trasversalità – espressione in lui di un’esigenza profonda, di un’indicibile vocazione universale alla conoscenza – “terza cultura”. Affermava: “Dobbiamo abituarci all’idea che la cultura sarà, nel futuro, il risultato del lavoro degli specialisti che, simili a speleologici, esplorano in profondità settori ignoti della realtà, quanto del lavoro dei non specialisti che, simili a instancabili giramondo, viaggiano ovunque in – seguendo la loro curiosità”. 

MZ: Spesso mi parli di Carlo Scarpa. Cosa racchiude la sua costruzione più importante, la monumentale Tomba Brion nel cimitero di San Vito di Altivole, presso Treviso?

EB: Ho visitato la Tomba Brion così tante volte che ho perso il conto, scoprendo in ogni occasione qualcosa che mi era sfuggita prima: basta una luce diversa e ti ritrovi in uno spazio nuovo, trasformato rispetto a come lo ricordavi… È un’architettura che non fa sconti alla morte, che lì c’è e si sente, nel vento che quando è forte accarezza sibilando certi dettagli in cui Scarpa era vero maestro, nei cigolii del bronzo, nelle gocce d’acqua che segnano il passare inesorabile del tempo, in quella sensazione di presagio eloquente che ti prende tra quelle mura piegate vigorosamente all’interno, a trattenere le ombre. Le due grandi aperture rotonde, collegate in magico equilibrio, sembrano cullare come nell’infanzia i defunti nell’oblio, con un movimento lento e irreale. La luce esalta lo spazio, lo amplifica, lo trapassa, lo trafigge. Il grigio e la notte annullano le ombre e i dettagli si quietano e si ridimensionano in un silenzio umano e garbato. Qui si avverte davvero una “corrispondenza di amorosi sensi”. Riposino in pace i Brion. E riposi in pace Lui, il gigante, in una terra sconsacrata lì accanto, dove tutto è modestia e discrezione, perché la morte non guarda in faccia neanche i protagonisti della storia.

 

MZ: Nella chiosa dell’intervista ti chiedo di raccontare ai lettori di Moltobene la festa che venne organizzata da Ingo Maurer in una fabbrica completamente illuminata dalle fiammelle di vere candele.

Ho conosciuto Maurer a Milano, nel primo storico Fuori Salone, nello Studio Marconi. Era il settembre 1979. Mi si avvicina un uomo bellissimo, che riconosco subito perché già più che famoso. Immediati e calorosi i suoi complimenti per Alias, che presentavo in quello spazio, soprattutto per Broomstick, una collezione disegnata da Vico Magistretti, quasi un’anticipazione della filosofia di Ikea senza il potere distributivo che caratterizzerà gli svedesi. È un incontro per me folgorante, senza esagerazione. Nel 1980, in vista della presentazione della collezione Broomstick, che Maurer avrebbe dovuto distribuire sul territorio tedesco, ci regalerà una festa veramente memorabile, in una fabbrica di cioccolato dismessa. Aveva illuminato di vere candele tutta la fabbrica, animata per l’occasione da cento meravigliose streghe vestite di nero e con un’ammiccante mascherina rossa sul viso. Tre cucine da campo davano da mangiare all’immensa folla e dappertutto c’erano clown, giocolieri, mangiafuoco, saltimbanchi, trapezisti, Maurer aveva assoldato due interi circhi equestri. Finita la festa, festeggiato san Vico, purtroppo la collezione si rivelerà un vero flop commerciale, troppo alti i costi per una distribuzione troppo sofisticata. Ma questa è un’altra storia.