testo: Luisa Goglio
Fotografie: Alberto Mancini, Simone Buccinà, Liay Cj, Giulia Martinelli
Quando mi han detto “Oasi del pensionato” ho pensato a un bar di paese: le sedie di plastica in cortile, quelle impagliate dentro, le carte da briscola, i calici di rosso e il frigo dei gelati.
Dimenticate tutto questo e visualizzate una strada tra campi di mais e foraggio, l’aria densa della pianura che sa di concime, infine una radura alberata e, oltre, più sotto, il greto del fiume. L’abitato di Orzinuovi ce lo siamo lasciato qualche chilometro alle spalle. L’Oasi del pensionato è una piccola insegna. Un campo da bocce recintato. Una fontana fatta con pezzi di recupero. Il pilone di un ponte ferroviario abbattuto durante l’ultima guerra – e sei subito fuori dal tempo.
Pensionati a dire il vero nemmeno l’ombra, è una mattina d’ottobre – “siamo un po’ fuori stagione, ma nel pomeriggio qui c’è ancora gente”. A parlare è Carlo The Stephani, orceano doc, che sulle rive dell’Oglio ci passava da ragazzo i pomeriggi d’estate – “la nostra piscina”.
È giovane, Carlo, ma ha già il gusto della rievocazione; insieme all’amico e fotografo Alberto Mancini ci ha condotti qui per raccontarci uno spaccato antropologico. L’obiettivo di Alberto ha documentato dal 2013 al 2015 la varia umanità, soprattutto gli anziani del paese, che nei pomeriggi d’estate raggiunge questo luogo per condividere quella cosa semplice e complicata che è il tempo: parlano, mangiano e bevono, organizzano tornei di bocce, il tutto in uno spazio creato e orgogliosamente gestito in totale autonomia.
Le belle stampe restituiscono la dimensione del luogo e dei suoi frequentatori: un universo felliniano di facce, spalle, torsi extralarge nudi nell’afa padana, una corporeità che il vivere urbano ha archiviato chissà dove. Il bianco e nero analogico – una scelta dapprima casuale e poi consapevole – dona al reportage un’aura di atemporalità, scaldata dallo sguardo partecipe del fotografo che si fa anche testimone e storico: “Un giorno ho tirato fuori le vecchie foto di quando era giovane mio padre, anche lui bocciofilo. Ho avuto una folgorazione: stessa atmosfera e stesse facce, a quarant’anni di distanza”.
E sempre a proposito di corpi: “Bisogna osare avvicinarsi alle persone, mezzo metro di più può darti un risultato diverso”. Scelta azzeccata, l’analogico, perché qui nulla è digitale: “guardate le foto, notate qualcosa di strano? NESSUNO ha in mano un cellulare”.
Torniamo alle auto. “Se vi trovaste qui una sera d’estate verso ora di cena vedreste una processione, decine e decine di biciclette che rientrano lentamente in paese. Impressionante”. Immagine biblica. Come gli sciami di moscerini che fendiamo lungo la strada.
Poco fuori dalle mura fortificate di Orzinuovi c’è lo studio bottega di Carlo The Stephani – Paint&Signs. “Belle insegne” ha dipinto su una parete che si vede dalla piazza. In giro pennelli, colori, ritagli di materiale, vetro dipinto, carta, prove di scrittura, libri e odore di vernice (di nuovo il corpo stuzzicato a toccare-curiosare-annusare).
Come molti di noi Carlo lavorava incollato al desktop in un’agenzia di pubblicità. Solo tre giorni la settimana però: nel resto del tempo aiutava il papà imbianchino: “il lavoro manuale mi ha sempre fatto bene, in agenzia mi veniva il mal di schiena”. Sarà stato questo imprinting a condurlo sulla strada della sua attuale professione, il pittore di insegne? “Inizialmente ho fatto un corso online di hand lettering con Jon Contino, in seguito un workshop a Zurigo con il sign painter americano Mike Meyer… mi si è aperto un mondo”.
Un mondo fatto di tante e diverse suggestioni che Carlo incorpora a strati (lui dice “crossover”): le città inglesi, dove il sign painting non ha mai conosciuto crisi; la vasta provincia americana; i carrozzoni dei luna park; i manifesti art déco; ma anche le insegne delle vecchie botteghe nostrane, scomparse dopo gli anni ’80 per via del plotter da taglio (le insegne) e dei centri commerciali (le botteghe).
L’ho già detto, a Carlo piace rievocare, e il suo lavoro è restituire esperienze: “Voglio pescare le emozioni che provavo da piccolo, evocare sapori e odori”. Non si tratta di nostalgia o, peggio, di cavalcare l’onda del vintage. Piuttosto, nuovamente, di opporre una modalità analogica del fare al fluire dell’immateriale frettoloso in cui un po’ sperduti navighiamo.
Carlo ha fede nel disegno, nella precisione della mano (conquistata con una disciplina rigorosa: “per due anni sono andato ogni giorno in garage per esercitarmi a tirare righe”), nell’hand lettering (le lettere tracciate direttamente a pennello) e nel lavoro fatto a regola d’arte.
“Sono un artigiano”. E aggiunge “bravo”.
Mi porto a casa un consiglio che già stazionava in qualche recesso del mio inconscio: “I caratteri si capiscono solo disegnandoli a mano. Fai disegnare i tuoi studenti”.
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