testo: MAURO ZANCHI
Fotografie: GIULIA MARTINELLI
Mario Cresci, fin dai suoi esordi artistici, ha sempre fatto in modo che le sue immagini fotografiche o le opere visuali potessero entrare in una dimensione in cui ogni cosa procede circolarmente in un più complesso percorso a spirale, tra avvicinamenti e allontanamenti rispetto al fine della ricerca o della presunta verità oggettiva. In questa dimensione più espansa e aperta, le varie declinazioni del tempo sono collegate come flussi di acque in divenire continuo: le immagini così vengono rivolte anche verso le interpretazioni successive, quelle che provengono dal futuro e che ancora non conosciamo. D’altronde i più geniali artisti di ogni periodo storico hanno intuito verità, idee, soluzioni formali nuove, colto questioni in anticipo rispetto ai propri contemporanei, avendo ben presente che è necessario chiamare e accogliere i messaggi che giungono dal tempo che non è ancora accaduto.
Chi si connette con il futuro è aperto al possibile che ancora non è rivelato. Bisogna avere doti di preveggenza ed essere ricettivi per cogliere aspetti che non sono ancora noti. Medium egli stesso, Cresci si è aperto sempre alla possibilità intermediale, alle riflessioni, ai dubbi e ai significati esperiti attraverso le proiezioni verso il futuro, anche per mezzo di discipline antropologiche, filosofiche e psicologiche, ma non solo, per conferire alle sue immagini letture e interpretazioni polisemiche o fare in modo che diventassero piattaforme utili dove far atterrare navicelle che giungono da altre prospettive, così che i sensi più sottili (che al momento non riusciamo a cogliere) si possano comprendere più in là nel tempo: “Sulla strada della ricerca […], soprattutto quella artistica , non esiste una verità assoluta, anzi forse è più assoluto il dubbio. È la presenza del dubbio che si dilata nei pensieri, nelle immagini e negli interventi da me realizzati: esso avvolge tutto, dalla memoria della parte fotografica degli anni Sessanta e Settanta, alle rivelazioni sul tema degli ultimi progetti” (M. Cresci, Forse fotografia. L’estensione dello sguardo, Bologna 2011, p. 28). L’artista ligure ha assorbito, analizzato e trasmesso il valore salvifico delle utopie. Soprattutto ha indicato l’applicabilità delle formule aperte insite nell’utopia, per estendere la visione in direzione di ogni area di ricerca e di sperimentazione. Che cosa è realmente l’esperienza visiva, quella in grado di andare oltre i limiti delle circostanze, dei luoghi geografici e del tempo? Come è possibile andare oltre le indagini solo rivolte verso il visibile e l’invisibile, per innescare un più complesso rapporto di scambio e confronto con alterità enigmatiche? Cresci ha esperito l’utilizzo del medium fotografico, contaminandolo con altre discipline, possibilità e saperi, e poi lo ha trasmesso ai suoi studenti e interlocutori.
La sua idea di fotografia è congiunta all’atteggiamento filosofico, per fare in modo che il linguaggio della visione abbia al contempo incontri di luce e confronti estatici col mondo. Il senso è quello di spingersi con l’immaginazione oltre le traduzioni e le proiezioni bidimensionali dei nostri pensieri cognitivi. Cerca una modalità metafotografica, che non sia solo approccio retinico “ma comprensivo di tutta la nostra sensorialità, estesa non solo al referente (il soggetto da fotografare) ma anche alla percezione quasi magica di un sentire soggettivo, che attraverso lo sguardo collega tra loro le relazioni di spazio e di tempo, che sono parti costitutive del singolo soggetto, senza le quali esso si isola, si rinsecchisce in se stesso, diventando pura forma visibile su un foglio di carta fotografica o stampata al plotter”.
Cresci intende e utilizza il fotografico sia per vedere la realtà dopo averla attraversata, toccata, visualizzata, analizzata, sia per andare oltre ciò che si vede come reale e ciò che si immagina esso diventi dopo averlo ripreso in immagine. Tutto può accadere in un tempo infinitesimale, in un secondo oppure dopo lunghi tempi di attesa. L’articolato processo del vedere è una disciplina che agisce attraverso la contemplazione profonda della vita. Poi ciò che si sente e si vede deve essere condiviso naturalmente per mezzo di una forma di comunicazione e di insegnamento, tra etica e didattica, dove poter immaginare con altri interlocutori, studenti, colleghi, anche “non realtà”, ulteriori cose, vite, sogni e visioni.
Quando lavora sui temi del tempo e della memoria, l’artista fa in modo che essi diventino inscindibili e imponderabili, messi a confronto con ciò che apparentemente non si riesce ancora a vedere o a comprendere. E quando utilizza il medium fotografico cerca di liberarsi dai dogmi dei linguaggi e dei mezzi espressivi dell’arte orientati a parcellizzare il suo statuto. E fluttua anche sul tempo che ha intriso di sé i luoghi della storia, intesi anche come dimensione in cui il tempo si relaziona con le cose negli spazi del visibile. Il mezzo fotografico può fare emergere la dimensione “magica” (nel senso filosofico inteso da Vilém Flusser) e immaginifica del reale, in un processo dove il fruitore, l’osservatore esterno, lo spettatore attivo, sono coinvolti per rinegoziare in ogni occasione il nuovo senso che si innesca in chi si relaziona con l’opera.
L’idea che ha accompagnato sempre la vita creativa di Mario Cresci è stata quella di continuare a ricercare, rischiando ogni volta per non ripetere il già percorso e visto. Non apprezza chi continua a produrre per anni sempre le stesse cose. Ha cercato di non avere mai rapporti e vincoli troppo stretti con le gallerie per lavorare liberamente, senza condizionamenti.
Quando giunge in Basilicata il suo lavoro si è tenuto a distanza dai codici e dai canoni fotografici della tradizione, lontano dalla logica del reportage e del fotogiornalismo, distante da una rappresentazione del mondo rurale in chiave retorica e neorealistica. Ha immaginato una sintesi, una sorta di graphic design applicata alla fotografia: “Mi hanno sempre interessato la sperimentazione del rapporto con la realtà e il lavoro sul territorio. Venivo da una formazione molto particolare, quella del design a Venezia negli anni dal ’63 al ’67 e che risentiva molto dell’influenza del Bauhaus. Seguii la lezione di Ernesto De Martino e così lavorai sul campo. Nel contatto con il territorio e con le persone è stato possibile costruire una sorta di mappa visiva degli elementi costitutivi di quel mondo, formato da tradizioni, culture e abilità nel fare le cose. Per me quindi la fotografia è stato un modo identico di approcciare gli elementi della cultura del design e al contempo quelli della cultura materiale del fare, che rappresentavano due aspetti della realtà che coesistevano in quel dato momento storico nel nostro paese”.
Nei primi anni ’70 Cresci collabora con un gruppo denominato ‘Il Politecnico’. Mentre gli architetti lavoravano sui piani regolatori Cresci si occupava della parte visiva: “È in questo contesto che nascono i Ritratti reali, una serie composta da circa quaranta opere, ciascuna un trittico. La prima immagine è una visione generale dell’ambiente domestico; fotografavo le persone che trovavo nelle case in quel momento, chiedendo loro di guardare verso l’obiettivo. Nella seconda immagine c’è sempre qualcuno che tiene in mano una fotografia di famiglia, scelta dai proprietari di casa (mi interessava anche indagare il tema della fotografia nella fotografia). Infine ho sempre fotografato da sola, distesa sul pavimento, la fotografia di famiglia scelta, isolata da tutto. È un’opera in cui l’aspetto antropologico-documentaristico della fotografia si collega a quello concettuale-estetico”.
Nella serie “Ritratti mossi” la scelta di rendere illeggibili i volti è al contempo un’allusione alla perdita d’identità dell’individuo in un mondo che stava sparendo lentamente schiacciato dall’arrembare della modernità: “In quelle riprese convivono molti problemi, non c’era un significato certo e preciso. Di sicuro non volevo fare i ritratti di persone in posa, perché sarei ricaduto in un modello di fotografia documentaristica già vista. Allora ho pensato a quelle figure di persone anziane che per la loro età erano – per così dire – già in una fase di sparizione, in un paesino che era a sua volta in una fase di cambiamento ed evoluzione del suo tessuto e dei luoghi. Però rimanevano gli anziani, che si mescolavano agli oggetti del quotidiano. Solo che i primi passavano e questi ultimi rimanevano. La scelta del mosso perciò vuole riflettere sul senso del perenne passaggio di stato dell’individuo inteso non come persona specifica in un determinato contesto privato , ma come genere umano, in cui anche io mi ci mettevo dentro. Lavoro replicato anche a Barbarano Romano per significare anche io faccio parte di una umanità che sta cambiando, in evoluzione. C’è bisogno che si senta che c’è una presenza umana ma che questo umano appartiene a ciascuno di noi. Siamo noi come entità umana che viviamo questi luoghi. Ritratti reali è una piccola “messa in scena” che ho voluto fare, una installazione. Si crea un effetto cortocircuito spazio-temporale, in cui si vedono persone che non ci sono più e persone vive, in una specie di racconto ciclico attraverso il rimando alle foto degli antenati. Avevo coinvolto una quarantina di famiglie di Tricarico, sono stati vari livelli di lettura dei luoghi e delle cose. Anzi direi – dentro – le cose. Mi interessava molto il rapporto con le persone, raccoglievo storie e testimonianze interessanti, spiegavo il mio lavoro. Mi colpì il fatto che alle pareti di quelle abitazioni non c’erano quadri o stampe ma foto. Tante foto incorniciate di persone. Qui il loro rapporto con la fotografia e la memoria era straordinario, con la passione e desiderio di avere con loro persone che non c’erano più. Per ogni foto ne stampavamo una copia che davamo alle famiglie per ricordo. Per cui io credo che la più grande collezione di mie fotografie sia nelle case degli abitanti di Tricarico”.
Autoritratto, Barbarano Romano (1978-79) è una summa di molte tematiche, in cui sono accorpati il quadro nel quadro (la metapicture di Mitchell), il ritratto e l’autoritratto, l’ombra e il senso del doppio, la presenza al contempo di qualcuno che è vivo ma che potrebbe sparire da un momento all’altro, il mosso atto a dislocare lo stesso volto in punti di vista successivi e simultanei, in più momenti del tempo dilatato.
Negli anni Ottanta, dopo aver frequentato Luigi Ghirri e alcuni artisti che avevano partecipato all’esperienza di Viaggio in Italia, Cresci sperimenta e utilizza ulteriormente la fotografia contaminandola con altre discipline e linguaggi, in un rapporto simbiotico di scambio, per allontanarsi sempre di più dal tracciato della fotografia tradizionale e per cogliere più in profondità il pensiero che è dentro l’immagine.
In realtà la sua ricerca si apre ad altri media già negli Anni Sessanta, legata all’ambito artistico più che fotografico, guardando attentamente le ricerche dei protagonisti dell’Arte contemporanea, di Boetti e Paolini in particolare. Negli anni degli studi al Corso Superiore di Industrial Design a Venezia si interroga sul concetto di “verifica”, che anche Ugo Mulas approfondisce alcuni anni dopo. Cresci cerca di estendere il visivo in direzione del tattile, e sonda il rapporto sensoriale con l’oggetto fisico, con la sua presenza plastica. L’immagine viene verificata attraverso interventi di modificazione, sparizione, cancellazione e taglio.
Nella sua lunga carriera – anche alla luce di un grande impegno didattico, come docente in varie università italiane (ora a Modena e Urbino) e come direttore dell’Accademia Carrara di Bergamo – Cresci ha compreso che il rapporto e lo scambio intellettuale con i giovani è vivificante, una linfa vitale, sia per quanto riguarda la contaminazione con i lavori e le idee degli studenti, sia per la discussione e soprattutto per la possibilità di mettersi in gioco con il confronto generazionale, per affrontare tante tematiche e modalità espressive in continuo mutamento nel corso del divenire contemporaneo.
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