testo: ELIA ZUPELLI
fotografie: GIULIA MARTINELLI, NICOLO’ TACCONI
Video: MARTINA PASINI, LIA PIRONI, ANDREA MERELLI
Cappello in testa, giacca a vento, sguardo arzillo: “Sono Bregoli Angelo detto ‘Bùro’. Perché mi chiamano tutti ‘Bùro’ qua”. Ottantadue anni portati in gran scioltezza, nonostante una vita dura come la roccia. Appena a fianco – felpona blu, occhiale vagamente fumé e qualche primavera di meno sulle spalle – suo nipote e amico inseparabile: “Sono Bregoli Floriano detto Bregoli Floriano. Non ho altri soprannomi”. Gli eroi della Miniera Marzoli sono loro, ieri come oggi. Sempre lì, inossidabili, a dividersi tra una cantata in allegria e sguardi nostalgici a quel buco nella montagna che per anni e anni è stata il loro luogo di lavoro, d’incontro e, per svariate ore al giorno, pure di vita.
Rievocano i Bregoli in coro simbiotico: “La miniera è chiusa dal 1972, noi tiravamo fuori la fluorite da qua…la adoperavano per fare i farmaci. Poi tiravamo fuori anche il ferro. Altri tempi. Entrare adesso ed entrare allora non è la stessa cosa. Una volta ti toccava stare in mezzo all’acqua, sempre con lo sguardo in aria e con il martello pneumatico stretto fra le mani e ficcato in terra. Funzionava così: facevamo il buco, mettevamo la carica, facevamo saltare, si tirava fuori tutto con pala e picca, si caricavano i vagoni e poi si portava tutto ai forni. Il capo ti dava l’ordine – precisa Bregoli senior – pò ghera la squadra che andaa deter. Staccati, mia gì tacàt a l’oter”. Giorni duri, turni interminabili, sempre a denti stretti. Eppure la vita in miniera concedeva anche momenti di svago, occasionali digressioni goliardiche durante le quali vino e convivialità erano i più degni complici: “La domenica si faceva festa. Ci trovavamo nelle osterie, si cantava ‘Santa Barbara’ e ‘Cara moglie’, erano quelli i nostri grandi classici”.
Come confermato da un’esibizione estemporanea qui e ora, sul finir di questo assurdo anno di nostro signore 2021, proprio lì, a due passi dalla miniera: atmosfera ebbra pur alle 3 di pomeriggio, vago sentore di nostalgia ultra folk e gran finale con applausi a scena aperta. “Io sono ancora la fisarmonica, ne ho casa sette” ammette apertamente di essere sempre in ottimo allenamento lo stesso “Bùro”. Suo nipote conferma e firma l’ultima cartolina delle allegre sbaraccate. “Alle volte capitava di andare al bar per berne uno e finiva che ci rimanevi due tre giorni, al bar…carte e morra erano i giochi imprescindibili. Tanto che a Pezzaze c’era un detto popolare secondo cui ‘avevamo il coltello piantato sotto il tavolo’, casomai qualcuno ti rubasse il punto. Inutile negarlo, era un gioco di nervoso: ma l’unico divertimento era quello lì”. Viva!
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