testo: ELIA ZUPELLI
fotografie: GABRIELE GREGIS, SUSAN PERANI
Originario di Asola, nel mantovano, ex studente di Agraria all’Università Statale, comincia l’attività espositiva a Milano nel 1985, grazie all’influenza di Corrado Levi, ed esordisce alla Brown Boverì, una fabbrica abbandonata e diventata in quegli anni luogo di ritrovo di molti giovani artisti, oggi sua dimora e studio. Influenzato dagli echi di rinnovamento innescati dall’Arte Povera e dalla Transavanguardia, attraverso un processo manipolativo, ripetitivo e quasi maniacale, Stefano Arienti trasforma gli oggetti più banali e consueti prelevati dalla realtà quotidiana – libri, elenchi telefonici, fumetti, orari dei treni e poster – in sculture che, pur mantenendo l’aspetto fragile e caduco del medium utilizzato, manifestano l’interesse dell’artista nei confronti delle potenzialità comunicative implicite nelle immagini appartenenti alla cultura di massa, oltre all’attenzione per il tema della meraviglia e della partecipazione dello spettatore.
Lavorando fianco a fianco con gli architetti Aymeric Zublena e lo studio Traversi + Traversi di Bergamo, autori del disegno dell’ospedale dedicata a San Giovanni XXIII, nel più ampio progetto che ha coinvolto anche Andrea Mastrovito e il collettivo Ferrario Frères, Arienti (1961) ha realizzato una serie di “affreschi” che dalle pareti si estendono in un continuum senza inizio e senza fine. Grazie all’uso di un particolare processo industriale, l’artista ha impressionato sul cemento l’elaborazione fotografica di un angolo di flora mediterranea, creando un giardino diafano e autoctono che trasporta la luce: durante il giorno il sole penetra all’interno, sfumando in grigio quando incontra arbusti e fioriture, mentre la sera l’illuminazione interna trasforma la chiesa in una sorta di lanterna che rasserena l’esterno.
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“Amalgamare nel contesto architettonico degli elementi artistici: è stata questa la grande sfida” racconta lo stesso Arienti, il cui lavoro è noto e apprezzato su scala internazionale. “Per me la committenza religiosa è un caso particolare di arte pubblica: l’artista deve tenere conto di tantissimi elementi e col tempo, in particolare durante questa esperienza, ho imparato che bisogna sintonizzarsi, fare un lavoro di ascolto…l’artista non può essere protagonista ma deve esserlo l’opera, che parla e interagisce con diversi soggetti”.
Come nel caso della Chiesa di Bergamo: “Non ho mai pensato di parlare con Dio, è il mio lavoro che parla…io potrò essere dimenticato, messo da parte, ma l’importante è che le opere stesse continuino a parlare. Gli artisti contemporanei, del resto, vivono di una megalomania e di un egotismo portati all’eccesso. Il circo contemporaneo funziona sulla narrazione e invece l’arte è altro: quando ho visto al cinema il trailer della mostra di Damien Hirst a Venezia, ad esempio, ho pensato ‘A questo punto faccio a meno di andare a vedere la mostra’.
Penso invece che le opere d’arte abbiano una vitalità estremamente più ambigua e complessa, che permane indipendentemente dall’artista e dai suoi racconti”. L’arte non si può insegnare: io infatti non sono andato a scuola, ma ho dovuta apprenderla da dei maestri straordinari che avevo attorno”. Per Arienti la modernità non è un dovere morale. Anzi, l’esatto opposto: “Facebook? Non ho neanche il profilo e me ne guardo bene. Sono un uomo del Novecento, mica un artista contemporaneo, e finalmente a 60 anni posso dichiararmi ufficialmente vecchio e vivere serenamente la mia vita da pensionato. Quanto ai giovani, dice, “non ho nessun contatto, perché vivono una dimensione loro, molto lontana. Una volta pochi scappati di casa riuscivano ad essere quelli eccentrici che portavano aria di novità ed elementi culturali di trasformazione. Oggi tale processo è totalmente schiacciato, queste ‘frange’ vengono subito assimilate, assorbite e quindi neutralizzate”. Come pronosticabile, sull’ultima imbeccata di #moltobene Stefano Arienti non ha dubbi: “Il mio vello d’oro…? Il tempo!”. Per tornare indietro, per guardare avanti, chissà.
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