Testo: Mauro Zanchi
Foto: Irene Chioetto
Paolo Caliari detto il Veronese, fuoriclasse indiscusso della pittura veneta del Cinquecento, dedicò una parte considerevole della sua produzione a rappresentazioni di scene conviviali, spesso di dimensioni monumentali. Tra queste, la Cena di San Gregorio Magno, realizzata nel 1572 per il santuario di Monte Berico a Vicenza, occupa un posto di rilievo. Quest’opera, unica tra le cene veronesiane a essere ancora conservata nella sua collocazione originaria, offre un affascinante esempio della capacità dell’artista di coniugare la maestria tecnica con una profonda riflessione teologica. Le altre cene di dimensioni monumentali sono: la Cena in casa di Simone, ora conservata nella Pinacoteca di Brera; lo “scandaloso” Convito in casa di Levi, ora alle veneziane Gallerie dell’Accademia, commissionato a Veronese nel 1573 per la basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, e per il quale finì davanti all’Inquisizione, quando aveva ironicamente ribattuto alle accuse “noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti”; le Nozze di Cana, il dipinto più grande esposto al Louvre, dove i suoi 132 personaggi ogni giorno vedono migliaia di turisti e curiosi mettersi davanti alla Gioconda di Leonardo per fotografare il suo sorriso e per farsi selfie con ghigni ebeti. Questi personaggi pittorici difficilmente riescono ad attirare l’attenzione di qualche sguardo dei visitatori “giocondeschi”. Solo una minima parte dei fruitori del Louvre si accorge di questo monumentale telero, che nonostante sia un capolavoro del Cinquecento gli vengono rivolte milioni di schiene ogni anno e solo una paradossale indifferenza.
Commissionato dai Servi di Maria, il telero di 40 metri quadrati (468 x 861 cm) rappresenta un episodio tratto dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine, secondo cui papa Gregorio Magno, invitando a tavola dodici pellegrini, scoprì tra essi lo stesso Cristo. Il figlio di Dio è raffigurato con una conchiglia da pellegrino al petto tra i commensali, e la sua presenza è rivelata dal suo riflesso su un piatto d’argento, sottolineando l’importanza del servizio ai poveri e ai bisognosi come forma di adorazione divina. La ricchezza dei dettagli, dai preziosi tessuti degli abiti alla rappresentazione delle guardie svizzere, prime in un’opera pittorica, contribuisce a creare un’atmosfera di grande opulenza e raffinatezza. La presenza di una fauna simbolica, con cani, gatti e una scimmia, arricchisce ulteriormente la composizione, richiamando alla tradizione iconografica rinascimentale. In particolare, il cagnolino in mano al paggio, che rimanda a quello presente nella Villa Barbaro di Maser, testimonia la predilezione di Veronese per la raffigurazione degli animali, un tratto distintivo della sua produzione.
Veronese, con la sua consueta abilità narrativa, incentra la composizione sul momento del divino svelamento, creando un’atmosfera di intensa emozione e di sacralità. La scelta di ambientare la scena in un elegante loggiato aperto costituisce una cornice di straordinaria eleganza e conferisce all’opera un carattere monumentale e solenne, sottolineando l’importanza dell’evento rappresentato. La Cena di San Gregorio Magno è un’allegoria della carità cristiana. Il gesto di ospitalità del papa, nell’accogliere i pellegrini alla propria mensa, si carica di significati simbolici, richiamando alla pratica della carità come fondamento della vita cristiana. L’opera di Veronese, pur radicata nella tradizione iconografica cristiana, presenta elementi innovativi. La rappresentazione dei circa quaranta personaggi, con i loro abiti ricchi e i loro gesti espressivi, è caratterizzata da un realismo che anticipa le ricerche degli artisti barocchi. Spicca nella cena una attitudine alla divagazione, con molti personaggi appartenenti a ranghi diversi, che co-agiscono attraverso lievi movimenti nella rappresentazione. Inoltre, la presenza dei cani, del gatto e della scimmia, conferisce alla scena una familiarità domestica, che unisce diversi momenti nello spaziotempo del quotidiano perenne. Sullo sfondo, nella parte centrale della scena, sono stesi panni bianchi ad asciugare su una lunga verga che fuoriesce da un palazzo.
Non si scorgono pantagrueliche portate sulla tavola imbandita, solo qualche pollastro o volatile allo spiedo e poco altro. Nel convivio compare solo un bicchiere colmo di vino rosso, portato da un servitore a un commensale a bocca asciutta. Vi sono più tracce di cibo lungo le pareti del refettorio, dove sono allineate vetrine che contengono fossili di pesci preistorici, forse progenitori dei merluzzi, e un uovo di dinosauro. E se non si trovano coltelli nella Cena di Veronese uno è appeso alla parete degli ex voto, sotto vetro accanto a innumerevoli cuori donati alla Madonna dei Monti Berici per le grazie ricevute. Forse una grazia l’ha ricevuta anche il dipinto di Veronese. La travagliata esistenza della Cena di San Gregorio Magno è segnata da eventi bellici che ne hanno compromesso l’integrità. Durante le spoliazioni napoleoniche, nel 1811, l’opera fu trafugata e trasferita alla Pinacoteca di Brera a Milano, dove rimase per sei anni. Tuttavia, il danno più grave si verificò nel 1848, in occasione della prima guerra d’indipendenza. Le truppe austriache, in ritirata, sfogarono la loro furia sulla tela, lacerandola in ben trentadue frammenti. Fortunatamente, l’episodio suscitò l’indignazione dell’imperatore Francesco Giuseppe che, durante una visita a Vicenza nel 1857, decise di finanziare il restauro. L’opera fu miracolosamente ricomposta, sebbene le cicatrici delle ferite inferte dai soldati austriaci siano ancora visibili.
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