LIBERI di SOGNARE

Testo: Elia Zupelli
Layout: Mathias Pucciarelli, Maria Stohlman

Fino al 30 giugno la Basilica Palladiana di Vicenza ospita “Pop/Beat. Italia 1960-1979”, mostra curata da Roberto Floreani “sul ‘sentire comune’ di artisti, letterati, musicisti di un ventennio cruciale del nostro Paese”. 

Spaziando con eclettica attitudine tra linguaggi espressivi multiformi e progetti collaterali, riverbera l’urlo ribelle di una generazione: “Siamo capelloni beat, randagi agnelli angeli fottuti”.

Il manifesto programmatico s’insinua nelle pieghe dei lunghi capelli, profuma di asfalto e taccuini on the road, evoca le atmosfere lisergiche di una grande festa collettiva dove tutti sono liberi di sognare: “Pop/Beat. Italia 1960-1979”, come afferma il curatore Roberto Floreani, scintilla dunque in quanto “mostra viva, comprensibile, popolare, che riporta nella collettività la leggerezza e la propositività sociale di quegli anni, attualizzando quella ‘Libertà di sognare’ che oggi può rivelarsi salvifica dopo le costrizioni del lockdown…

Un progetto sul ‘sentire comune’ di artisti, letterati, musicisti di un ventennio cruciale del nostro Paese, superando le barriere strettamente storiografiche, le rispettive rivendicazioni tematiche individuali, le stesse classificazioni Pop e Beat in gran parte nemmeno condivise dagli stessi artisti che han finito col farne parte”. Spaziando con eclettica attitudine attraverso pittura, scultura, video e letteratura, il progetto espositivo – inedito per l’Italia – trova la sua dimensione negli spazi della Basilica Palladiana, dove rimarrà allestito e visitabile fino al 30 giugno, svelando una collezione temporanea di opere provenienti dai principali musei, gallerie e collezioni private nazionali frutto appunto delle intuizioni dello stesso Floreani, anch’egli artista, il quale lo ha ideato e curato per il Comune di Vicenza e Silvana Editoriale (che ne hanno assunto la coproduzione). Per la prima volta vengono dunque raccontate ed esposte insieme le generazioni Pop e Beat italiane, testimoni di un sentire comune di quegli anni, legato a una visione ottimistica del futuro e all’impegno movimentista del Sessantotto, rendendosi quindi originali e autonome dalle suggestioni Pop e Beat americane, per troppi anni indicate come determinanti. 

In Italia si alimenterà infatti una frequentazione dal basso, sensibile alla tradizione artistica nazionale, al paesaggio, all’avanguardia futurista, che sarà protagonista dei mutamenti sociali, politici e culturali nelle piazze, nelle strade, nelle fabbriche, nelle università: istanze diventate oggetto di gran parte delle opere e dei documenti esposti. Nel dettaglio. La sezione Pop, con quasi un centinaio di opere selezionate di trentacinque artisti, privilegia i grandi formati spettacolarizzati da un’ampia sezione di sculture: tra le altre, opere di Valerio Adami, Franco Angeli, Enrico Baj, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Renato Mambor, Ugo Nespolo, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Concetto Pozzati, Mimmo Rotella e Mario Schifano accendono la scintilla; la temperatura Beat in mostra è poi garantita dalla musica di quegli anni, diffusa in loop, e rappresentata dai rari documenti originali di Gianni Milano, mentore di un’intera generazione, Aldo Piromalli, Andrea D’Anna, Gianni De Martino, Pietro Tartamella, Eros Alesi, Vincenzo Parrella e molti altri, nonché dalla vicenda artistica militante dell’Antigruppo siciliano, guidato dalla figura carismatica di Nat Scammacca, di cui sono esposte le pubblicazioni fondative, relative alla sua Estetica Filosofica Populista, in chiara polemica con la Beat salottiera ed egemonica del Gruppo ’63 (“la loro verità è bugia”), legato all’influenza dei grandi editori del nord e dei concorsi letterari, e molto meno attento alle pulsioni popolari. Il progetto ricontestualizza la stessa natura della Pop e della Beat italiane, dando priorità a ciò che gli artisti stessi dichiaravano circa la loro ricerca, nonché percorrendo un tragitto che dalla “Libertà di sognare” approderà fatalmente alla “Fine del sogno” degli anni di piombo, della disillusione e della diffusione delle droghe pesanti, messe in scena in tutta la loro crudezza al Festival di Castelporziano nel 1979.

Lo stesso curatore amplifica il segnale della mostra negli scritti a corredo: “Ci sono alcune dichiarazioni di quegli anni che rendono meglio di ogni altra cosa la temperatura di quella stagione: ‘‘Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il Beat è morto”, che Allen Ginsberg, il vate della Beat Generation disse a Gianni Milano, pari grado in Italia; e inoltre: ‘Perché siamo capelloni beat, randagi agnelli angeli fottuti’, scritta da Gianni De Martino, altro protagonista di quegli anni. Indubbiamente l’Italia viene scossa dall’uscita nel 1964 del libro ‘Poesia degli ultimi americani’, curato da Fernanda Pivano, che sposta l’ottica dei giovani da Pavese, Baudelaire, Fenoglio, Svevo, verso Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, permeati da un’idea di ribellione e di autonomia totale verso il passato. 

Il vocabolo Beat nasce negli Stati Uniti da un dialogo tra Jack Kerouac e Clellon Holmes nel 1948, diffuso poi al grande pubblico dal New York Times solo verso la fine del 1952: nell’uso comune di quegli anni sarà attribuita a un soggetto che ha toccato il fondo del mondo, senza un soldo e un posto dove stare. Mentre la Pop Art negli States prenderà identità precisa a New York solo un decennio dopo. In Italia – continua Floreani – le tendenze Pop e Beat, pur nell’improprietà delle due definizioni, avranno una genesi più ravvicinata: con la prima di fatto identitaria a partire dal 1962 e la seconda che darà tracce già dal 1965. Entrambe saranno accomunate quindi da un sentire comune attento ai fermenti sociali, politici, economici e di costume di quegli anni e diventeranno lo specchio delle utopie, delle illusioni e delle speranze di buona parte di quella generazione. La declinazione musicale di quegli anni, infatti, fa ancora parte dell’immaginario collettivo di una larga parte della popolazione adulta di oggi. Tuttavia, la ricezione di quel fortissimo messaggio libertario d’oltreoceano verrà immediatamente assimilata a misura della realtà italiana, in quella Torino dei ‘capelloni’ che diverrà la capitale del giovanilismo alternativo: figli dello stupore assetati di libertà che contestano la società, l’istituzione, la famiglia, la scuola, il sistema…

Un fermento che ribolle dal basso, peculiarità distintiva nazionale e che si catalizza in un campeggio spontaneo, improvvisato, battezzato Nuova Barbonia, pressoché privo di strutture dove i Capelloni vogliono decidere della loro vita, senza condizionamenti e che sarà sgomberato con la forza dalla Polizia, in un tripudio repressivo di stampa senza precedenti. Una Beat italiana nata dalla protesta, dalla contestazione che sarà quasi immediatamente fagocitata dalla politica, aggregata a quel movimentismo che condurrà, da lì a pochi anni, al Sessantotto e alla stessa contestazione della Beat americana vista come frutto di un paese imperialista, che già evidenzia i suoi contrasti in casa con la tragica guerra del Vietnam. 

La Beat italiana si identificherà presto nella sottocultura, nel sottoproletariato, dove giovani quasi analfabeti volevano scrivere poesie, atmosfera distante da quella respirata nelle università americane e nella libreria City Lights di Ferlinghetti, anche fortunato editore di caposaldi mondiali quali la poesia ‘L’Urlo’ di Allen Ginsberg, già protagonista in tutte le università americane per narrare, recitare e diffondere la propria esperienza di libertà. La Beat italiana sarà distantissima da quel mondo, nel migliore dei casi cercherà di autoprodursi, autodiffondersi, di sopravvivere, distante dalle dorate realtà delle case editrici nazionali impegnate nella pubblicazione degli autori americani. 

Per questo motivo – conclude Floreani – riuscire a esporre in mostra i rarissimi testi di quegli anni, di quelle edizioni con tirature minimali, senza distribuzione, senza diffusione libraria e oramai sparite dal mercato, rappresenta oggi un contributo significativo ai fermenti di allora.”