Testo: Mauro Zanchi
Layout: Eva Carollo, Andrea Mercante
Immaginate una scala di luce che entra nelle nubi dell’Olimpo. Avvicina il cielo alla terra. Un passaggio per l’eternità desiderato da tutti i mortali. Al fondo della scala, Giove, il più grande tra gli dèi, trova Alcmena, bellissima regina di Tebe.
La seduce sotto false spoglie, ne fa la madre di Ercole. In un altro tempo, intanto, Enea scende nel mondo degli Inferi. Vince la morte. Ritorna sulla terra, e porta una fiammella di speranza. Il dio degli dèi scende dall’Olimpo degli Immortali. Si incarna in un essere mortale. Mentre Enea ed Ercole scendono nell’Ade per vincere la morte. Le gesta di Ercole, rappresentate sul frons scenae del teatro palladiano a Vicenza, esaltano la potenzialità della grandezza e formano una sequenza simbolica rivolta agli spiriti volitivi.
“HOC OPUS HIC LABOR EST” (“Questa opera è la mia fatica”), il motto che campeggia sull’attico del proscenio, evoca l’impresa di Enea quando esce vivo dal mondo degli inferi (Virgilio, Eneide VI, 129) e rimanda anche alla simile fatica vissuta da Ercole nell’Ade, nell’atto di rapire il guardiano della soglia, ovvero Cerbero, il cane a tre teste. Il motto – assieme alla raffigurazione di un ippodromo ellittico, dove gareggiano nella corsa quattro bighe – dà voce all’impresa dell’Accademia degli Olimpici, qui cinta da due figure femminili alate, che, in nome della Fama, annunciano la notorietà con le trombe giubilari. Il motto e le fatiche di Ercole, dunque, avevano l’intento di ricordare agli Accademici di Vicenza – e ora a ogni fruitore contemporaneo – che ogni individuo, per mezzo del talento, delle grandi imprese e del frutto delle fatiche, può essere introdotto dalla Fama nell’Olimpo degli immortali.
Nel Cinquecento, Ercole rappresenta anche un rimando a Cristo; è infatti, come Gesù, un figlio di origini divine, che vince la morte e sale in una dimensione celeste ed eterna. Questo chiarisce la grande fortuna che ebbero le gesta di Ercole, raffigurate diffusamente in molte ville venete del XVI secolo. E questa corrispondenza di motivi e di rimandi allegorici è consolidata sul medesimo simbolo di stampo solare, che intende sia Cristo sia Ercole come figure dell’immagine visibile dell’invisibilità di Dio.
La tradizione letteraria greca successiva al V sec. a.C. afferma che Ercole viene accolto nell’Olimpo dopo la dodicesima fatica, ovvero dopo aver ucciso il drago nell’orto delle Esperidi e dopo aver colto le mele auree. È qui allusa una concezione solare dell’eroe, il quale si contrappone alle figlie di Atlante e della Notte (le Esperidi) per riscattare la sua natura mortale, risorgendo come il sole, che ogni giorno ritorna a risplendere nel cielo dopo la notte. Il sole calante – ovvero Ercole alla fine delle dodici fatiche, che alludono al passaggio temporale del sole nei dodici segni dello Zodiaco – entra nelle estreme regioni della notte, vince il drago discendente dal Caos primordiale, e risale in cielo manifestando la resurrezione trionfale.
Il mito narra che nell’Olimpo, successivamente, Hera gli dà in sposa la figlia Ebe, ovvero la dea dell’eterna giovinezza, ribadendo così il significato profondo legato a sottili corrispondenze di stampo astrologico. Queste allusioni sono atte a significare il flusso eterno delle alternanze giorno-notte/ cielo-terra / mortalità-immortalità. Nel soffitto del proscenio, infatti, la scena dell’incoronazione di Ercole nell’Olimpo è dipinta in un ottagono, forma geometrica utilizzata in architettura per significare un rimando all’eternità, soprattutto nei battisteri per alludere alla vita eterna donata dall’esempio di Cristo.
L’Olimpico ha come ideale il raggiungimento di un bene superiore, elargibile, ai più, in forma di sempre nuova sorpresa, dentro il contenitore architettonico dove domina il fascino di un luogo della memoria umanistica. In origine, accedere al teatro degli accademici rappresentava un privilegio. Essere ammessi in questo spazio riservato equivaleva partecipare a un segreto esclusivo.
Dalla sera del carnevale del 3 marzo 1585, le strutture architettoniche ideate da Vincenzo Scamozzi per la scena del Teatro Olimpico introducono lo sguardo degli spettatori nelle vie di Tebe, ovvero nella storia di Edipo, dove aleggiano i fantasmi della tragedia di Sofocle. In un primo momento, il consiglio degli Accademici pensò di rappresentare una favola pastorale, dai toni leggeri ed elegiaci, ma si preferì invece mettere in scena la suprema espressione della poesia tragica greca, l’Edipo re, seguendo la nuova traduzione del veneziano Orsatto Giustiniani, come se la scenografia di Tebe e la toccante storia potessero innescare meglio un transfert indelebile sugli spettatori. Tebe è la città dove, dall’unione fra Giove e Alcmena (nella lingua greca significa sia la “forza del genio” sia la “grandezza d’animo” sia “l’ardore dello spirito” sia la “potenza dell’anima”), nasce Ercole, immagine del perfetto amante della Sapienza.
Sul fronte della scena a doppio ordine corinzio vi sono le quarantadue statue degli Accademici. Siamo guardati dalla loro fissità. Loro sono entrati nella dimensione della memoria storica, incasellati ordinatamente nelle nicchie e nella struttura del proscenio e dell’esedra, bloccati dalla positura, abbigliati con abiti all’antica. C’è chi ha vicino un gallo, l’animale che annuncia una nuova alba, il sole di una vita eterna.
Un altro accademico dell’Olimpo regge nella mano destra un piccolo ariete dal vello d’oro, simbolo contemporaneamente dell’inizio della primavera nel segno di Aries e del più importante blasone nobiliare d’Europa, ovvero il Toson d’or. L’ariete dal vello d’oro è un’altra allusione alla resurrezione; infatti, in primavera la natura rinasce, mette al mondo nuovi fiori, odori, frutti, dopo l’apparente morte dell’inverno. Tra le statue degli olimpici c’è chi tiene in una mano uno scettro e con l’altra stringe un segreto, tiene in pugno una capacità che altri non hanno acquisito.
Un altro accademico tiene un piede sopra un libro chiuso, negando il suo contenuto, mentre è rapito nella lettura di un libro aperto, più affascinante e pieno di verità. C’è chi, con una corona d’alloro sul capo, tiene nelle mani uno scettro e il globo, che simboleggia tutto ciò che è compreso nel mondo terreno. Già nel 1585, i committenti hanno scelto di consegnarsi al futuro con un salto nostalgico nel passato glorioso dei grandi vissuti all’epoca romana. Salto indietro, dunque, per giungere ai posteri, come fosse un meccanismo caro alle macchine per viaggiare nel tempo: un ritorno al futuro regredendo nel passato.
Al contempo, però, gli Accademici vicentini volevano un luogo dove fossero coltivati gli studi umanistici, le arti e le scienze, per mettere in moto sempre un confronto diretto e dibattiti culturali espressi attraverso cimenti letterari, scientifici e tornei recitativi tra i soci. Sul coronamento dell’esedra campeggia, al centro, la statua con i tratti di Palladio, realizzata da Giacomo Cassetti nel 1750.
Noi spettatori, seduti sui gradoni della cavea, stiamo tra due punti di vista, tra due fuochi dello spaziotempo, dentro un complesso gioco di sguardi e di rimandi. Essere qui, adesso, in questo stesso istante, in attesa di assaporare una rappresentazione, significa entrare nel mistero di ciò che fluisce perennemente, che scorre continuamente nella dimensione del presente, dell’attesa e del ricordo. Percepiamo fortemente anche uno spirito del luogo, che permane da moltissimo tempo e che trascorre in ogni momento storico, qui e ora, qui per sempre tra gli sguardi delle statue e sotto il cielo di una dimensione costruita per salire, sulla scala di luce, tra gli immortali dell’Olimpo. Ci accomodiamo per assistere a uno spettacolo e siamo indotti a rapportarci con almeno tre tempi e punti spaziali differenti: con il mondo del mito greco, con la struttura del teatro, con la scenografia delle sette vie della città di Tebe, e con ciò che accade ora.
Siamo in un complesso processo di corrispondenze, tra storia e rappresentazione, tra mito e arte, come se l’illusionismo prospettico del teatro fosse uno strumento per entrare in una quarta dimensione, quella della nostra memoria e di quella delle spettatrici e degli spettatori a venire. Ora abbiamo l’opportunità di percorrere quella scala di luce che porta gli dèi sulla terra e gli umani sull’Olimpo.
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