Marco Senaldi: Strade facili - Vie difficili

testo: Marco Senaldi

E i viali vanno avanti in due filari

per pura educazione – 

così, per cortesia, 

non finisce la via.

Battisti – Panella, Potrebbe essere sera

Qualche decennio fa, i più agé se lo ricorderanno, furoreggiava una delle tante infatuazioni linguistiche che a ritmi cadenzati pervadono il nostro Bel Paese, cioè la parola “percorso”. Dal politicante cinico al critico d’arte, dal salumiere per signore al camorrista in carriera, tutti giù a parlare di “percorsi”: d’improvviso, niente era più una semplice “cosa”, una merce che magari vai a comprare al negozio all’angolo, oppure un servizio sacrosanto che un dannato assessore alla mobilità dovrebbe fornire ai suoi inferociti cittadini automobilisti: macché, tutto era diventato un “percorso”. Andavi con la curiosità di comprarti, mettiamo, una pipa, ed ecco che il tabacchino ti tirava fuori venti modelli diversi mettendo ben in chiaro che avvicinarsi al sacro rituale pipesco prevedeva un “complesso percorso”. Cercavi di parcheggiare l’auto in centro, pregando di non prendere l’ennesima multa, ed ecco che sul giornale scoprivi che in città era stato avviato un “nuovo percorso” urbanistico per filtrare la mobilità (e tu non lo sapevi!). Alla fine, come il Capo indiano Bromden, che nella indimenticabile scena di Qualcuno volò sul nido del cuculo sradica un enorme lavandino, ho visto persone sradicare banconi di negozio con cassa e cassiere incluso, in risposta alla inopinata domanda se, per acquistare una saponetta, volevano prima seguire un “percorso olfattivo”, naturalmente offerto dalla Casa.

Poi, purtroppo (ma, facendo mente locale a questi casi, vien da pensare, anche per fortuna) è arrivata la pandemia, e allora, d’improvviso, la moda del “percorso”, così come era venuta, se ne è andata, forse perché per la bellezza di due anni, nessuno, ma proprio nessuno, ha potuto permettersi alcun percorso – ed anzi, molti hanno ringraziato la fortuna di avere una terrazza, un giardino, ma che dico, un misero cortiletto, almeno per girare in tondo come dei neo-carcerati.

L’idea del percorso, del resto, non era male: significava più che altro che dietro ogni oggetto, prodotto, realtà, o persona, si cela un cammino, di cui spesso ci dimentichiamo, o che facciamo di tutto per non vedere. Ma, come tutte le cose belle, anche questa, una volta divenuta di moda, si è banalizzata atrocemente, perdendo ogni senso e ragion d’essere. Oggi, se la clausura forza ci ha insegnato qualcosa, sappiamo che ogni oggetto o soggetto nasconde in sé un percorso, ma sappiamo anche che la parola stessa non basta a descrivere l’incredibile serie di difficoltà, cadute, fallimenti, e rinascite, che resta incomprimibile, inafferrabile, muta. Sarà per questo che, andato nell’oblio il percorso, oggi si torna a parlare di “via”. 

Ora, il minimo che si possa dire è che la via non è sinonimo di strada – anche se lo sembra: la strada è quella che ci indica il fidato google map per partire da un punto x e tornare, magari, a casa. Ma la via è tutt’altra cosa: anzi, forse è proprio l’opposto della strada, poiché indica quel passaggio, quel pertugio, quella strettoia, invisibile al satellite, non traducibile in segno, indecifrabile sul terreno. 

La misteriosa “via difficile” è quella che l’alpinista esperto cerca con il fiuto sul fianco del monte, quella che il cercatore di funghi non rivelerà nemmeno all’amico più intimo, quella che il poeta lascia in bianco alla fine del verso. 

Quella, e solo quella, è la vera via – che tutti cerchiamo, e che tutti ci attende.