Testo e intervista: Valerio Borgonuovo, Marco Senaldi
Fotografie: Elisa Pasotti, Beatrice Burlone
All’interno della sala riunioni della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, Valerio Borgonuovo e Marco Senaldi, rispettivamente Direttore e Direttore Artistico di LABA Brescia e Trentino – insieme a una puntuale compagine di allievi nonchè membri della “brigade terrible” di moltobene – incontrano il Presidente della Fondazione, Paolo Corsini, con cui conversano di vita politica, fede civica e delle più diverse ragioni che uniscono piuttosto che dividere le città di Brescia e di Bergamo.
Marco Senaldi: Tre volte Sindaco di Brescia, ha studiato Filosofia e insegnato Storia Moderna, è stato Parlamentare, membro della Commissione Stragi, Senatore e infine Presidente della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia. Professore, inizierei col chiederle se è possibile riassumere un percorso così importante.
Paolo Corsini: Mah è presto detto, ho vissuto esperienze innanzitutto come studioso, insegnando Storia Moderna all’Università di Parma, occupandomi poi di Storia delle origini cristiane, e successivamente di Storia e Filosofia a Milano con una virata decisa verso l’epoca contemporanea, anche perchè mosso da una forte passione politica. E, in effetti anche in politica ho vissuto esperienze piuttosto interessanti. Innanzitutto come Consigliere di opposizione in Palazzo della Loggia dal 1980 fino al ’92 quando, in seguito a una strana contingenza al di là di ogni possibile previsione – poichè consigliere molto distratto e prevalentemente impegnato in università – mi sono ritrovato a essere Sindaco di questa città, dal ’92 al ’94. Dopodichè decisi di rientrare nella città e chiudere con l’impegno politico militante, e fu così che promuovemmo un’esperienza che credo sia stata antesignana dell’Ulivo di Romano Prodi, cioè un’alleanza politica di governo di centrosinistra, convincendo Mino Martinazzoli ad assumersi l’onere della candidatura. E vincemmo. La direzione però mi chiese di capeggiare la lista del Pds (Partito Democratico di Sinistra), e quindi Mino Martinazzoli mi chiese di restare con lui come vicesindaco, incarico che ricoprii dal ’94 al ’96 con deleghe alla Cultura, all’Urbanistica e alla Partecipazione. Nel ’96, quando ci furono le elezioni politiche fu lo stesso Martinazzoli a invitarmi a candidarmi alla Camera per la quale dovetti dimettermi dal ruolo di vicesindaco, venendo poi eletto al Parlamento. Anche da questo incarico però mi dimisi per partecipare alle elezioni di Sindaco di Brescia del ’98 che vinsi e rivinsi ancora nel 2003 ricoprendo il ruolo di sindaco fino al 2008. Successivamente, nel 2013 sono diventato Senatore. Avevo però fatto una promessa a mia moglie, ovvero che sarei andato in pensione non appena raggiunta l’età di 70 anni. Cosa che feci e di cui nutro un certo orgoglio in quanto mi permette di dire di essere uno dei pochissimi esponenti politici italiani che ha mantenuto l’impegno assunto con i propri elettori, perché dovete sapere che è molto più facile entrare in politica che uscirne! E quindi dal 2018 mi sono restituito completamente alle attività di studioso, facendo una bellissima esperienza prima come collaboratore della Fondazione Luigi Micheletti e poi, in seguito alla prematura scomparsa di Aldo Vecchi, come Presidente di una Fondazione che si occupa di studi storici, di storia politica, di studi ambientali, e dove sono raccolti tutti gli archivi di ambientalismo politico e scientifico italiano. E questo è molto brevemente la sintesi di una biografia che non so quanto possa essere interessante.
M.S.: Io e Valerio siamo qui a Brescia in maniera più stabile da poco tempo ma un’impressione comune che abbiamo avuto è che questa città ci sembra poco italiana, nel senso che ci sembra estremamente dinamica, molto concreta, dove anche un istituto storico come questo produce incontri e attività di rilievo. E dove trovi due università, due Accademie di Belle Arti, e tutta una serie di realtà che ci fanno vedere Brescia un pò come una capitale educativa, ancora prima che culturale. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa di questa nostra sensazione e se c’è secondo lei qualcosa che distingue Brescia.
Paolo Corsini: Sono orgoglioso di confermare la vostra impressione di Brescia come città quasi non italiana, più europea che italiana, e gliela confermo come osservazione comune anche a quella di colleghi parlamentari venuti qui per partecipare a iniziative e dibattiti, e che, camminando nella città, utilizzando i servizi pubblici, mi dicevano di non sentirsi in Italia, nel senso che la città è come dire riconoscibile per alcuni tratti caratterizzanti. Ne evocherei almeno tre: il primo sta nel motto scritto sulla Loggia “Brixia Fidelis Fidei et Iustitiae”. Quindi una tradizione che è connotata da un forte radicamento in una vicenda di religiosità e di fede. Una fede che non è soltanto, come dire, coltivazione di un fede spirituale, ma che si traduce in opere al servizio della più ampia comunità. Di fatto Brescia vanta tra le migliori scuole per l’infanzia d’Italia, ha tre case editrici, ha un sistema bancario che oggi si è evoluto ma che è all’origine di idee fondamentali, Opere di assistenza, e così via. Il secondo aspetto è l’imprenditività. Direi che è tipico per un bresciano interiorizzare lo spirito di intrapresa. Non per nulla questa città ha prodotto ad esempio un presidente della Confindustria italiana. Non per nulla in questa città, e nella sua provincia, si affermano primati ed eccellenze industriali straordinarie. Pensate soltanto al settore dell’automotive oggi, di cui Brescia è una delle capitali d’Italia.
Infine, la terza caratteristica che richiamerei è la laboriosità. Addirittura qualcuno ha parlato di una sorta di “religione del lavoro”, quasi in senso calvinista, cioè nel riconoscere di vivere una vita di grazia perché il proprio lavoro gratifica, perché attesta il proprio successo; ma calvinista ha anche un altro significato, ovvero che nel bresciano non c’è ostentazione, non c’è esibizionismo. Cosa che può diventare anche un limite, perchè il bresciano inizialmente non dico che è diffidente ma è abbastanza chiuso.
Valerio Borgonuovo: Prima di arrivare al tema caldo di “Brescia Bergamo Capitale della Cultura”, vorrei riallacciarmi al suo ruolo come assessore alla Cultura, all’Urbanistica, alla Partecipazione civica chiedendole una testimonianza sulla figura di Cesare Trebeschi, sindaco di Brescia all’indomani della strage di piazza della Loggia nel 1974, e che affrontò in maniera davvero straordinaria e unica quel ruolo, ricucendo il trauma di una intera società civile.
Paolo Corsini: Ho avuto con Cesare una frequentazione in Palazzo della Loggia e poi più di un’occasione di incontro nel suo studio, perché spesso mi recavo da lui per avere consigli circa l’espletamento delle mie funzioni di Sindaco e di Vicesindaco; ma anche per discutere di temi della vita contemporanea. Devo dire che Cesare Trebeschi incarna questa figura – che io trovo tipicamente bresciana – più del cristiano che del cristiano cattolico. Non soltanto per le modalità del suo linguaggio, spesso intessuto di riferimenti biblici, non soltanto tratti dal Nuovo Testamento ma anche da quello Antico. Quindi un cristiano che impone a se stesso una morale per quanto riguarda la vita pubblica estremamente rigorosa, cogente, derivata dall’educazione familiare ricevuta. Perché il padre di Cesare, Andrea, lo ha educato a questa intransigenza morale, in questo rigore etico che per la famiglia poi si tramuta persino in alcune tragedie. Penso al fatto che Andrea Trebeschi muore in un campo di concentramento tedesco ed è uno dei martiri della resistenza cattolica al nazifascismo. Cesare Trebeschi è stata una persona estremamente rigorosa non soltanto negli anni della sua esperienza di sindaco, ma anche successivamente, rappresentando un autentico maestro di vita morale e civile. Direi che è stato per molti anni la voce più autorevole di questa città. Io sono stato alla sua opposizione ma poi abbiamo vissuto anche una riconciliazione di tipo politico, perché Cesare è stato uno dei primi coordinatori dell’Ulivo bresciano. Vorrei ricordare un episodio, tra i tanti, sulla sua intransigenza morale: Trebeschi ottiene di far incontrare al consiglio comunale di Brescia Papa Paolo VIº e naturalmente in Vaticano gli si spiega che il Papa incontra la Giunta perché lì non ci sono i comunisti, che invece sono in Consiglio. Cesare replicò come solo lui sapeva fare sostendendo la linea del tutti o nessuno. E ancora, quando arriva Giovanni Paolo II e le autorità vaticane vogliono leggere il discorso di saluto al Papa che lui sta per fare. Era un discorso molto pregno di istanze sociali, perché per lui il radicalismo evangelico era anche, come dire, impegno alla socialità più larga e diffusa. Le autorità vaticane lo leggono e non glielo approvano. Quando gli chiedono di cambiarlo, lui risponde che allora il Papa non avrebbe ricevuto il saluto del Sindaco della città. Alla fine il discorso fu letto.
M.S.: E dopo questa bellissima testimonianza su Trebeschi, vorrei chiederle della presunta e storica competizione tra Brescia e Bergamo, nell’anno in cui queste due città ricoprono il ruolo di Capitale della Cultura italiana. Ma è vera o è una favola?
Paolo Corsini: Allora, c’è una competizione e una animosità reciproca, che è geograficamente riconoscibile dal fiume Oglio che divide le due province. Non c’è dubbio che ci sia una rivalità storica tra le due città, ma proprio in relazione al tema della cultura mi pare siano stati un pò sottovalutati – persino nei discorsi di inaugurazione – i fattori di affinità e gli elementi di collaborazione che storicamente hanno segnato le due città. Ne richiamo qualcuno: le due città hanno una struttura morfologica quasi identica, con le valli longitudinali a gravitare sul capoluogo, la Val Seriana, laVal Brembana, la Val Trompia, e la Valle Camonica per Bergamo, accentuando in questo caso la centralità del capoluogo. Ma non solo le valli, anche la pianura. Una vasta pianura. Quindi una struttura morfologica e geografica decisamente simile. Poi una distribuzione urbana e abitativa diversificata, ma anche ricca di somiglianze. A Brescia abbiamo il Colle della Maddalena, diciamo la città alta. A Bergamo abbiamo Bergamo bassa e Bergamo alta. Ma accanto a questi fattori di natura morfologico-geografica c’è un’economia altrettanto confrontabile con la preminenza del settore primario e dell’artigianato per secoli. E con una rivoluzione industriale che in entrambe le città ha origine nelle valli e sfrutta la forza motrice dell’acqua, e della quale possono vantare nicchie di eccellenza e primati globali. Penso al “chilometro rosso” a Bergamo e all’automotive a Brescia. Non solo però dati morfologici e strutturali che attendono all’economia, ma anche la vicenda storica di popolazioni che hanno comuni ascendenze e che hanno un dialetto molto simile, certo, con un’accentuazione di durezze da parte del dialetto bergamasco e di alcune isole linguistiche storiche, penso alla Valle Camonica. Ma, diciamo così, una struttura del linguaggio molto simile. Entrambe le città inoltre vivono la dominazione viscontea, tre secoli di appartenenza alla Serenissima, poi il Lombardo Veneto. Il condiviso afflato risorgimentale: Bergamo è la “Città dei Mille” e Brescia La “Leonessa d’Italia”. E poi la tradizione cattolica. Basti pensare al peso che l’opera dei Congressi, il cosiddetto cattolicesimo intransigente, ha avuto nelle due città.
Ed è una vicenda che si riverbera nel primato che le due città detengono per esempio per quanto riguarda la formazione primaria, l’educazione primaria con scuole, asili d’infanzia, aperture di istituti di credito di mutuo soccorso, assistenza ospedaliera, opere di beneficenza, una presenza sul territorio di fortezze, casematte – per citare Gramsci – che documentano l’affermazione di un’egemonia cattolica posta al servizio dell’intera società.
E poi, sotto questo profilo, i due Papi. Nel 1958 Papa Giovanni XXIII inaugura il Concilio, il “Papa buono” che esalta l’ecumenismo della Chiesa Universale. E poi Paolo VI nel 1963, che continua questa linea e conduce la Chiesa al dialogo col mondo moderno, col mondo contemporaneo. Per venire ai giorni nostri, anche qui posso richiamare affinità e forme di collaborazione che meritano, secondo me, di essere valorizzate nel momento in cui ci presentiamo non come capitali della cultura, ma come “capitale” della cultura. Quasi che Bergamo e Brescia fossero un unico sistema. Anche qui posso richiamare alcuni esempi: le unioni bancarie e quelle delle due municipalizzate. A Erbusco, in un paese della provincia di Brescia, in un’unica tipografia si stampa tanto il Giornale di Brescia quanto il Quotidiano Bergamasco. Nelle due città operano case editrici, centri di ricerca, fondazioni di prestigio e poi il Festival pianistico internazionale dedicato ad Arturo Benedetti Michelangeli che ha costituito – almeno fino a quando ha mantenuto questa impostazione – forse il fattore contemporaneo di più alta riconoscibilità della collaborazione e dell’unificazione tra Brescia e Bergamo. Infine, ma non per importanza, aggiungerei anche la tragedia della pandemia, per la quale le due città hanno avuto probabilmente il numero di morti e di deceduti più rilevante.
Penso dunque che se si vuole utilizzare al meglio la formula “Bergamo Brescia Capitale della Cultura”, sia più opportuno richiamare questi fattori piuttosto che rivendicare lacerazioni, divisioni risalenti all’alto Medioevo o che si sono incestate in alcuni episodi. Perchè la sintesi Brescia-Bergamo passa anche da una comune esperienza di sofferenza, stress e dolore. E in un tempo come quello contemporaneo che vive di smemoratezze e di amnesie penso valga la pena focalizzare la nostra attenzione sul Presente, su un Presente come germe di Futuro.
MC: Imprecisabile resta il numero delle milizie in campo, da un lato come dall’altro: certo la maggior frequentazione della storiografia bresciana con la materia ha, quantomeno, permesso nel tempo di cristallizzare l’attenzione sul leggendario eroe della disputa, quel Biatta da Palazzo che avrebbe risolto la contesa a favore della patria. La mattina del 7 luglio 1191, tra Cividate e Palazzolo i cremonesi gettarono un ponte di barche per assalire e mettere a ferro e fuoco l’agro bresciano, seguiti dagli alleati bergamaschi.
La reazione bresciana non si fece attendere, ma difettava di un concreto sostegno da Milano, motivo per il quale vennero sfibrandosi le barriere difensive. Nell’imminenza di una rotta, tuttavia, – come tradizione vuole – giunse il manipolo disposto a presidio del castello di Rudiano, disposto a Sud, e dunque sopraggiungente alle spalle dei cremonesi e dei bergamaschi. L’impeto di riscossa di Brescia indusse i nemici, tra numerose vittime, a battere la ritirata. La calca di uomini e di cavalli incalzati dalla Leonessa ruggente si risolse in sciagura sul fiume impetuoso, portando all’annegamento di gran parte degli assalitori. È essenzialmente per via di questo specifico episodio che il combattimento assunse il nome di battaglia della mala morte, adottato in ambito locale e persino dal celebre cronachista milanese Galvano Fiamma tra il XIII e il XIV secolo.
Da ultimo fu il carroccio cremonese a essere predato dai bresciani, che lo introdussero in città quale pegno di vittoria contro le vicine rivali. A questo punto sarebbe dovuto intervenire l’imperatore Enrico VI per sanare le contese, lunghe e trascinate nel sangue lombardo, stabilendo che Costa Volpino e Ceratello venissero restituite ai bresciani, mentre Sarnico e le località della Valcalepio tornassero a pieno titolo di pertinenza bergamasca.
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