testo: ELIA ZUPELLI
Fotografie: LETIZIA BAROZZI – GIULIA MARTINELLI – ABERTO MORANDIN – MARCOLLI FILIPPO
Cappuccino di piselli, cozze e polvere di liquirizia. Rana pescatrice cotta a bassa temperatura al fumo di faggio avvolta nella pancetta con anguria. Zuppetta di ali di razza, pane croccante, consommé leggero. Capasanta al burro di cacao, rabarbaro candito, vellutata di zucca. Risotto Acquerello invecchiato un anno, mantecato con doppio concentrato di rapa rossa, cervella di vitello alla milanese. Terrina di pere e foie gras d’oca, marinato al Calvados, gelato alla cipolla e sherry. Gelato all’azoto.
Dagli anni ruggenti di Officina Cucina, il primo ristorante in Italia con un solo tavolo che aprì a Brescia, di acqua sotto ai ponti ne è passata per Andrea Mainardi. Eppure i capelli dello “chef atomico” bergamasco di origine ma ormai bresciano d’adozione – apparentemente una contraddizione in termini – continuano ad essere sparati in alto, color platino e pure l’energia è sempre la stessa. Anzi, semmai fosse possibile, pure potenziata nel tempo. Lo ha dimostrato nel giro di quattro secondi durante la sua visita in LABA, dov’è arrivato travolgente come un fulmine a ciel sereno: incontenibile da subito, fra sagaci osservazioni fashioniste (“gentile Signora, le sue scarpette rosse assomigliano a quelle di Vissani…”), ricordi di ieri, progetti di domani e vis-à-vis con gli studenti. Nel mezzo, il racconto del suo viaggio libero: da Gualtiero Marchesi a “Cotto e mangiato”, passando per il “Grande Fratello”.
Innovazione, evoluzione, sensibilità, miglioramento, contemporaneità:
la storia di Andrea Mainardi, 39 anni portati con patto diabolico, racconta tutto questo e molto altro.
Compreso uno speciale menù dedicato a Brescia-Bergamo capitale della cultura (anche gastronomica?). “Oggi cucino per far star bene le persone, amo stare con mia moglie e con la mia famiglia. È lì che nascono le vere ispirazioni. Ai miei figli metto in bocca i gusti nostrani: salame, salmì, la polentina col burro…”
Benvenuto a bordo! Via alla seduta psicanalitica. Capitolo primo: la passione per la cucina.
Il primo ricordo che conservo è di un uomo molto elegante, con i capelli bianchi e un grosso cappello in testa. Il suo nome era Gualtiero Marchesi, tre stelle Michelin, lo chef che ha rivoluzionato la cucina italiana, orgoglio nazionale in tutto il mondo. Avevo diciotto anni quando arrivai alla porta del suo ristorante di Erbusco, L’Albereta, in Franciacorta. Mi presentai e gli dissi: “Voglio venire a lavorare per lei, anche gratis. Ho fatto una scommessa con mia madre, non posso perderla”.
E come andò?
Andò che vinsi la scommessa…anche se la mia vera fortuna credo sia stata individuare fin da piccolo quello che avrei voluto fare da grande.
Cucinare?
Esattamente.
Come ricorda il periodo da Gualtiero Marchesi?
Grandioso. Fu un’esperienza meravigliosa, sia dal punto di vista formativo che umano. Allora Gualtiero era Dio. Un fuoriclasse assoluto, il primo a vedere oltre: si ispirava ai grandi artisti, ha staccato le opere dalle pareti e le ha messe nel piatto. In quella cucina eravamo in trenta, una generazione di fenomeni tra cui Carlo Cracco e Andrea Berton. La prima settimana ti toccava selezionare con rigore militare le bacche di pepe rosa, quella dopo pulire le foglie di cerfoglio: una gavetta micidiale, ma indispensabile. A vent’anni ero già capo partita. Pur con le dovute gerarchie che vigono nelle grandi cucine, con Marchesi si era instaurata una certa sintonia: a capodanno gli lanciavo i petardi in ufficio!.
Poi che successe?
Decisi di aprire il mio ristorante, volevo fare l’imprenditore ma non c’avevo una lira. Così, di necessità virtù e grazie anche all’aiuto di un paio di soci, pensai di aprire il primo ristorante in Italia con un solo tavolo. Si chiamava “Officina Cucina”, al primo piano dei Monaci sotto le stelle, a Brescia, vicino alla Centrale del Latte. Comprai una cucina usata su eBay e mi misi all’opera applicando alla mia maniera tutto quello che avevo imparato.
Risultato?
All’inizio, tutt’altro che incoraggiante. Proponevo spume, arie, piatti che volevano stupire a tutti i costi. Effetti speciali. Brescia rispose tiepidamente: i clienti venivano, ma mi chiedevano “do fete dè salàm”. E io puntualmente mi incazzavo. Poi qualcosa è cambiato.
Dagli anni ruggenti di Officina Cucina, il primo ristorante in Italia con un solo tavolo che aprì a Brescia, di acqua sotto ai ponti ne è passata per Andrea Mainardi.
Prego, via libera al plot twist…
Un giorno nell’andare al Media World per comprare un frullatore a immersione scoprii una cosa che mi stravolse la vita: una specie di pacchetto-tutorial a prova di scemo per creare un sito internet. Tornai a casa e seguii le istruzioni… Fino a quel momento nemmeno sapevo cosa fosse la comunicazione, ma da lì in avanti il ristorante cominciò a lavorare veramente e soprattutto a far parlare di sè, suscitando per la prima volta anche l’attenzione di critici e giornalisti.
Tutto questo, prima della seconda svolta: la televisione.
Nel 2010 arrivò la chiamata di Antonella Clerici per “La prova del cuoco” e quell’esperienza ribaltò nuovamente ogni mia certezza. Facevo avanti indietro da Brescia a Roma e viceversa, col Freccia Rossa, partivo la mattina, diretta, e poi tornavo al volo in tempo per aprire il ristorante alla sera. Sono stati anni di sacrifici: diciamo che non mi ha regalato un cazzo nessuno.
Dall’intimità della cucina ai riflettori nazionalpopolari della tv: che effetto le ha fatto il grande salto?
Stordente, senz’altro. Ma è stato un passaggio anche molto naturale, casuale per certi versi, col senno di poi penso di essere stato bravo a cogliere l’occasione. E fortunatamente sono sempre rimasto con i piedi per terra, “sfruttando” la tv per diventare famoso così da poter portare più clienti possibile al ristorante e allargare l’orizzonte del mio business. Il debito, umano e professionale, che ho verso Antonella Clerici è immenso: non sarei qui se non avessi iniziato a fare “La Prova del Cuoco”. Il primo amore non si scorda mai.
Il brivido della telecamera ha un prezzo?
Non direi. Solo emozioni positive. Ecco, forse l’unico aspetto negativo in tutto questo è che la televisione mi ha fatto diventare famoso per un tipo di cucina che non era la mia.
Esiste un segreto per avere successo? E soprattutto per mantenerlo nel tempo?
Senza dubbio: l’allenamento. Costante. Poi anche il talento naturalmente. Ma mi sento più simile a Cristiano Ronaldo che a Messi.
Teme il giudizio degli altri?
Piaccia o non piaccia, il giudizio altrui in qualche modo ti influenza. Sia esso una critica, una recensione negativa o l’insulto di un hater. Come quando leggi un commento negativo su Instagram: possono essercene anche altri cento positivi, ma ti concentri sempre su quello. E a volte crolla tutto.
Che ne pensa degli influencer?
Per usare un eufemismo, è una parola che non amo particolarmente. Io non influenzo nessuno, mi piacerebbe semmai ispirare qualcuno, condividere e lasciare ogni giorno un pezzettino della mia esperienza.
Un’altra tappa decisiva: il Grande Fratello, nel 2018, secondo classificato. Lo rifarebbe?
Senza ombra di dubbio. A differenza di quanto molti potrebbero superficialmente pensare, e li capisco pure, vedendolo da fuori, da spettatori, per me il GF è stata un’esperienza incredibilmente intensa. Soprattutto a livello mentale ed emotivo, dato che quando sono entrato nella casa stavo per sposare mia moglie, cosa che avrei solo rimandato di qualche mese. Ma in gioco c’era la fiducia, là dentro ho messo in discussione tutti i miei affetti più grandi, anche il rapporto con mio padre, che ho ritrovato per poi perderlo durante il Covid. Anche se è stato un lavaggio del cervello totale, perché dopo un mese distante dalle persone che ami rischi di dimenticartele, quell’avventura mi ha aiutato a crescere come uomo, attraverso le lacrime che ho versato come un bambino.
Da questo punto di vista oggi come si sente?
Di certo più aperto verso questi sentimenti che apparentemente ti rendono più debole.
Cosa cucinava nella casa del GF?
Lenticchie. Sempre e solo lenticchie: 77 chili in 77 giorni. Minima spesa massima resa.
C’è ancora spazio per quel tipo di cucina oggi? Povera, semplice, di una volta?
Purtroppo sempre meno: le vere “bettole” stanno sparendo, ma la tradizione per me rimane fondamentale. Sempre.
Che rapporto ha con la nostalgia?
Un rapporto piuttosto freddo. Non si può vivere di rimpianti. Il tempo, del resto, affievolisce tutto, fa dimenticare: un lutto, una relazione, figuriamoci un piatto.
E con la noia?
La dribblo: le esperienze, anche le più entusiasmanti, diventano routine. Servono sempre nuovi stimoli. Vale anche per una famiglia. Costruire è la cosa più difficile, le sfaccettature fanno la differenza.
Come si sente ad essere, dopo tanti anni, un “maestro” a sua volta? Per i tanti giovani con cui lavora, ad esempio.
È una sensazione impagabile. E per giunta mi aiuta a mantenermi giovane a mia volta. A confrontarmi con nuovi linguaggi, a creare nuove opportunità di lavoro, a non perdere il passo.
Cosa consiglia ai suoi “allievi”?
Ogni giorno dico loro la stessa cosa, ovvero di tenere vivi i dettagli, i ricordi, di conservare sul comodino una cartolina o una fotografia, un braccialetto o un oggetto particolarmente significativo. Non dimenticarsi chi si era ieri permette di affrontare a testa alta il domani. E in generale ad essere più performanti nella vita.
A quali nuovi progetti sta lavorando?
Nascendo come cuoco e ristoratore ho passato tutta la mia vita a fare orari assurdi: oggi sto ragionando su me stesso, ho un nuovo ristorante, sempre mono tavolo, sempre a Brescia, all’interno della meravigliosa Corte Piovanelli, dove cucino personalmente due giorni alla settimana. Continuo a lavorare in tv, attualmente in Mediaset a “Cotto e Mangiato”, con Tessa Gelisio. Per il resto il focus è mantenere i miei hobby e il mio business, ma soprattutto stare il più possibile con la mia famiglia: per questo ho ridefinito i tempi e spostato l’asse del mio lavoro, è questo il mio nuovo “grande progetto”.
Oltre ai panettoni naturalmente…
La pasticceria è sempre stato un territorio off-limits per i cuochi. Per me in particolare, visto che l’ho sempre abbastanza odiata. Ed è proprio quello il bello, la provocazione: non potevo certo pensare a un panettone classico, come quello del grande maestro Iginio Massari, ma dovevo stravolgerlo, renderlo mio, darne una libera interpretazione. Golosa, goduriosa, lussuriosa: tantissimo burro, una montagna di canditi e uvetta, arancia candita…fino alle versioni più spericolate con cioccolato caramellato e pere candite, oppure ai tre cioccolati. Una vera libidine!.
Per rimanere in tema. Un menù dall’antipasto al dolce che unisca Brescia-Bergamo, insieme Capitale della Cultura 2023: cosa preparerebbe?
Dunque…Come aperitivo: salame. Nostrano. Fette spesse almeno due dita perché se la fetta non sta in piedi da sola non è salame. Primo: casoncelli alla bergamasca. Pasta a base di farina e acqua e nel ripieno carne avanzata, magari arrosto o un bel brasato, e poi uvetta, pere, amaretti, brodo, burro fuso, chiusura a caramella e via nell’acqua bollente. Condimento d’obbligo: pancetta croccante, salvia e ancora burro fuso. Impossibile negarsi anche due casoncelli alla bresciana, magari alle erbette. A seguire: spiedo. Classico e straordinario: “mombolini” (io li faccio con la coppa), costine, burro di Bagolino e una cottura lentissima. In parte, polenta: va bene sia alla bergamasca, più dura e tagliata a filo o al coltello, con del taleggio fuso, o alla bresciana, leggermente più morbida. Dessert: torta di rose, Bossolà e Polenta e osei, la tipica torta bergamasca. Dulcis in fundo, una fettina del mio panettone non potrebbe mancare.
Alla fine di questo lungo viaggio, cosa significa per Andrea Mainardi “cucinare” qui e ora?
È un atto d’amore, un gesto profondo, intimo. Significa soddisfare il palato di chi assaggia e non più solo gratificare il mio ego, come avveniva tempo fa. Oggi fondamentalmente cucino per far star bene le persone.
LABA – Libera Accademia di Belle Arti
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