Bar Pizzeria Alba
Dove finisce lo Stato inizia la pizza

Testo: ELIA ZUPELLI

Fotografie: LIAY CJ — VITO PETRACCONE — W.L.F.

Pare fossero i primissimi anni Ottanta, anni effervescenti di bollicine. 1983 vocifera qualcuno. Leggenda narra che un allora spericolatissimo Vasco Rossi, reduce da un concerto particolarmente rocambolesco ed esaltante a Bergamo, per motivi non meglio precisati (licenza di immaginarli) venne cacciato dal mitico Hotel San Marco oggi “Excelsior”, già al tempo un cinque stelle sempre in ghingheri, e fuggendo dalla città con qualche residuato bellico della sua combriccola trovò rifugio in una piccola locanda sperduta a Lonno, dove s’intrattenne con sommo gaudio e altra baldoria fino all’indomani. Quel posto esiste e soprattutto resiste ancora oggi, ovviamente identico a ieri, e forse non è un caso che si chiami Bar Pizzeria Alba. Un’Alba rossa, più che un’alba chiara. Ma poco importa, perché pur sempre di alba si parla e da Vasco in poi fra le pareti al civico 4 di piazza S. Antonio Abate se ne sarebbero viste ancora infinite di albe. Infilarsi lente tra i vetri e il caldo pungente della stufa, tra i ritratti del Che e di Nelson Mandela, tra i baffi dell’anarchico Gaetano Bresci, quelli di Charlie Chaplin oppure ancora quelli di Simone Pianetti, il bandito vendicatore della Val Brembana, già protagonista fra gli “esseri mitologici” narrati in queste colonne, onnipresente ai muri impresso a muso duro sull’iconico adesivo: “Uno in ogni paese!”.

Mentre là fuori tutto cambia qua dentro tutto resta: immutato, anacronistico, fedele alla linea. Lo ribadisce anche la frase programmatica che si staglia sull’insegna all’ingresso, scritta nera su sfondo bianco – rara digressione cromatica dal tema dominante rouge – incorniciata da una soffice composizione di garofani, ovviamente rossi: “Dove finisce lo Stato inizia la pizza”. Meraviglia! Mente, anima e pugno chiuso all’origine di tutto questo e molto altro da una trentina d’anni è un certo Giordano, “come Giordano Bruno”, un omone dal sorriso facile, col grembiule e la bandana a raccogliere i lunghi capelli, più sul grigio che sul rosso. Unica avvertenza agli astanti: “Nelle foto smagritemi vi prego”. Nessun problema è un attimo e l’avventura può iniziare ormai. Poco più in là del poster rosso con impresso in dicitura militante “25 aprile. C’è bisogno di resistenza!” si possono infatti scoprire i menù del giorno. E in un’uggiosa domenica sera di metà novembre il convento passa: polenta taragna scalvina, “meglio conosciuta come festa del colesterolo”, o in alternativa le “Creste caste e non croste”, ovvero dei ravioli di pasta fresca all’uovo altrettanto ripieni di formaggi della Val di Scalve, conditi con ettolitri di burro fuso o per chi volesse star più leggero con porcini, sugo di selvaggina o speck e porri, licenza poetica vagamente altoatesina. “Si chiamano così perché vengono chiusi a mano e dove i lembi di pasta si congiungono formano delle pieghe simili a una cresta di gallo”. Poi, la pizza: bassa, croccantissima, leggerissima. “Il segreto è l’acqua di queste valli”, s’affretta a precisare Giordano. Che però preferisce spignattare lasciando la nobile incombenza del forno a legna a un giovane e funambolico pizzaiolo-rasta: cottura millimetrica e sapore sincero.

In realtà all’ “Alba” tutti fanno tutto, i ruoli si invertono: spesso anche occasionali avventori si ritrovano catapultati dall’altra parte del bancone o a vagare fra i tavoli servendo brocche di vino e sorrisi conviviali. Talvolta gli incontri estemporanei si fanno persino nel retrobottega, come altrove non si usa più. “Ricordo una volta durante ‘Lo Spirito del Pianeta’, il Festival dei popoli indigeni, vennero qua irlandesi, coreani, indiani, gente da tutto il mondo: dopo poco tempo, complice qualche birra e qualche sigaretta magica, avevano già fatto amicizia, ridevano e sorridevano! È questo lo spirito del pianeta e anche lo spirito del nostro locale: accogliere tutti in un’atmosfera di amicizia e vera fra fratellanza fra le etnie e i gruppi etnici del pianeta e le loro culture”. Propiziata anche dalla musica, più un tempo che oggi a onor del vero: “Forse l’unica cosa cambiata rispetto a una volta”, allarga le braccia Giordano. “I permessi, i costi, la burocrazia, la SIAE…ti passa la voglia di organizzare un concerto. E dire che all’Alba ci sono passati tantissimi artisti, non solo Vasco. Gli Inti-Illimani, ad esempio, qui erano di casa”. Con tutta probabilità pure loro avranno partecipato a una delle serate a tema tuttora proposte dal locale di Lonno. Dalla “pizzata regicida” alla “cena anticlericale”, rigorosamente accomunate dal medesimo epilogo: uno, perché no anche due, caffè della casa, che da queste parti si chiama “Sacrificio Maya”. Sul nome e le origini dell’intruglio è sempre Giordano a fare chiarezza: “Importai la ricetta segreta da un viaggio in Guatemala, assaggiai là per la prima volta questa bevanda dai poteri sciamanici. Ha il sapore del caffè ma non contiene caffè, è piuttosto alcolica ma posso garantire che se ne possono bere diverse tazzine senza avere il minimo mal di testa il giorno dopo”. Vista la strada tortuosa e l’ora tarda verranno altre occasioni per appurare la tesi. Così, nel mentre scortati dal simpatico cane-mascotte dell’Alba, che si chiama Maya pure lei, resta giusto il tempo per un caffè – classico, al più doppio – e un ultimo sguardo all’arredamento. Perché ogni angolo è una scoperta, talvolta una rivelazione. Senz’altro una rivoluzione. Più ideale che militante, ironica e un po’ nostalgica, non certo armata se non di coltello e forchetta. Certamente, profondamente filosofica. Come ricorda la straordinaria massima ascrivibile a un non meglio precisato “saggio della montagna” che svetta davanti alla cassa (conto popolare), prima dell’uscita, in mezzo a grappe e liquori: “La teoria è quando si sa tutto ma non funziona niente. La pratica è quando funziona tutto ma non si sa perché. Qui si sono raggiunti entrambi gli obiettivi: non funziona niente e non si sa perché”.