testo: Marco Senaldi
Temo che l’acqua sia vittima di uno sventurato fraintendimento. Se si eccettua il protofilosofo Talete, secondo cui all’origine del cosmo c’è appunto l’acqua, la stragrande maggioranza degli scrittori, pensatori e uomini comuni predilige invece di porre alla base di tutto la solidità indiscutibile della terra ferma – da cui un’infinità di modi di dire quando parliamo di piattaforma, zoccolo, piedestallo, basamento, appoggio, sostegno e via dicendo.
Non è che l’acqua non ci piaccia: tutti sappiamo che è benefica per gli uomini, che è essenziale per la vita, che è la linfa del pianeta, però la sua imprevedibilità ci disorienta e confonde. Così, abbiamo creduto che fosse lecito godere dell’acqua senza subirne i difetti, di usarne a nostro piacimento derubandola della sua fuggevolezza. L’idea di imprigionare l’acqua sorgiva in una bottiglia, per di più di plastica, ha qualcosa di insieme affascinante e perverso. La possibilità di catturare qualcosa di così imprendibile, di trasportarla lontano da dove sorge e di distribuirla anche a chi non può raggiungerla, sembra una conquista dell’umanità. Ma basta rifletterci un attimo per capire che un simile programma, quando si diffonde poi in dimensioni enormi, trascina con sé degli effetti collaterali catastrofici. La pletora di bottigliette diventa una minaccia alle stesse risorse idriche che serviva a raccogliere: e non è un caso se l’80% dei rifiuti che finiscono nei fiumi e nei mari sia costituito da contenitori di plastica. È evidente che l’idea ci ha preso la mano. Lo stesso potrebbe dirsi per il bizzarro concetto di piscina: non è meraviglioso poter disporre di una vasca riscaldata davanti alla baita alpina, o di un refrigerante specchio d’acqua in mezzo al deserto? Peccato che quando si arresta l’acqua, quando la si ferma e la si incornicia in quei meravigliosi quadri geometrici che sono le piscine, il suo destino è quello di imputridire in pochi giorni. Per impedirlo occorre una tale macchinosa denaturalizzazione che a fatica quella di una piscina potrebbe essere ancora definita acqua.
Quindi, non c’è niente da fare. È nella natura stessa di questo elemento liquido l’ineffabile mobilità: l’erompere in abbondanza e il drammatico scarseggiare, lo sgorgare improvviso e il ritirarsi inesorabilmente, il creare fiumane devastanti e il lasciarsi dietro siccità altrettanto calamitose. Se ci lamentiamo amaramente della scarsità di piogge che colpisce il vecchio continente, è solo perché ci dimentichiamo che agli antipodi, in Australia, si stanno verificando alluvioni del tutto inusitate. Mentre osserviamo attoniti il rovinoso tracollo dei nostri ghiacciai e lo scioglimento del permafrost ai poli, ci dimentichiamo di collegarli all’inarrestabile sprofondare delle isole Tuvalu e all’erosione dei terreni dovuta alle piene fluviali in Bangladesh.
Eppure, anche se facciamo fatica a capirlo, è così: è proprio l’acqua a insegnarci che non solo tutto è connesso, ma che esiste una misteriosa e segreta dipendenza fra ogni parte del creato dentro il quale, come in un’incisione di Escher, finiamo per vedere riflessi noi stessi. Non a caso l’antica saggezza del Tao – qui in armonia col detto di Eraclito “panta rei” – esorta di “essere come l’acqua”.
Perché forse è a questo che serve da ultimo l’acqua: a pensare.
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