testo: Mauro Zanchi
Ne’ Il Diluvio Universale (1661) di Pietro Liberi, l’Arca di Noè è interpretata come un rimando alla Chiesa e rappresenta la comunità cristiana formata da individui battezzati, che costituiscono una nuova umanità: “L’Arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua, è figura del battesimo, che ora salva voi” (1 Pietro 3, 20-21). Ma Liberi va al di là delle sole otto persone salvate dentro all’arca e porta l’acqua salvifica anche ai pentiti o ai fortunati sopravvissuti al diluvio. A differenza dei personaggi che compaiono della tarsia L’arca di Noè (1524) di Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capoferri – dove il male viene perpetuato anche nel momento terribile e drammatico del diluvio e dove alcuni individui prendono a calci altri per accaparrarsi un tronco galleggiante o un posto sopra legni galleggianti – qui invece le persone si aiutano vicendevolmente e manifestano profonda solidarietà. Qualcuno ha già raggiunto la terraferma, si aggrappa al fusto di un albero dalle radici forti e aiuta altri a uscire dalle acque che hanno causato la morte di innumerevoli esseri viventi. L’opera visionaria del pittore padovano è drammaticamente efficace, livida e grandiosa, di maniera più tardomanierista che barocca, dipinta con una scala tonale di colori dove prevalgono i bruni, gli ocra e le terre verdi. Durante il recente restauro, l’opportunità di vedere da vicino il telero ha permesso di cogliere un tipo di pittura “in avanguardia” e inconsapevolmente preveggente, dove le pennellate libere e quasi “impressionistiche” hanno affinità con certe soluzioni formali dei grandi artisti sperimentatori del XIX secolo. Sul piano iconografico, nel dipinto la demarcazione fra cielo e terra crea una linea di confine fra l’umano e il sovrannaturale. La metà superiore del telero è occupata dal cielo che si apre dopo il Diluvio, reso pittoricamente in forma di spazi luminosi che perforano la nerezza della grande nube.
L’arca è sullo sfondo, volutamente posta in secondo piano perché a Liberi interessa di più descrivere l’aprirsi della vita ai sopravvissuti del Diluvio. La grande nube scura si apre e lascia trapassare i raggi del sole per prosciugare le acque piene di corpi deceduti. Il pittore padovano dà risalto all’umanità dei sopravvissuti ed enfatizza la loro “caritas cristiana”, la solidarietà nel momento successivo a una catastrofe naturale: alcuni soggetti sono descritti mentre pregano e ringraziano il Signore, altri mentre piangono i parenti morti; le madri portano in salvo i figlioletti, una donna si aggrappa alla coda di un cavallo per trarsi in salvo. Un’altra donna, dipinta proprio al centro della composizione, è colta nel gesto tipico della Melancolia, con il volto appoggiato sulla mano e con il gomito puntato sulla gamba a sostenere il capo pervaso dalla tristezza. La mano di un vecchio sostenuto da un uomo, tesa a incontrare quelle di altre persone già sulla terraferma, ricorda la più famosa immagine michelangiolesca della creazione di Adamo nella Cappella Sistina ed evoca le corrispondenze teologiche inerenti a quel gesto imperioso e sacrale.
Secondo le letture dei Padri della Chiesa, il legno dell’arca salva l’uomo giusto e integro dal Diluvio, proprio come il legno della croce salva colui che crede in Cristo.
L’Arca (in ebraico “tebah”) indica la cesta, cosparsa anch’essa di “pece e bitume”, galleggiante sul Nilo dove fu posto Mosé infante. La parola ebraica “tebah” non è uguale a quella che designa l’Arca dell’Alleanza, anche se nella Bibbia Dio crea un legame di comunione con Noè, il primo in assoluto nell’Antico Testamento. L’ultima “alleanza” è quella stipulata nell’Ultima cena dove Cristo parla di “un’alleanza nel suo sangue”(Matteo 26,28; Marco 14,24; Luca 22,20).
E a Cristo alludono le due citazioni sulle tabelle tenute dai profeti nella parete a stucco che fa da cornice al “telero” del Liberi: “EX TE EGREDETUR QUI SIT DOMINATOR IN ISRAEL. MICH V” (“E tu, Betlemme di Efrata […] da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” [Michea 5, 1] ) e “EX OMNIBUS FLORIBUS ELEGISTI TIBI LILIUM UNUM. ESD IV CAP. V” (“Tra tutti i fiori hai scelto per te un unico giglio”).
In Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia (1669-1670), invece, Antonio Zanchi utilizza violenti contrasti di chiaroscuro e dipinge anatomie di corpi modellati come elementi architettonici che escono dai fondali scuri, insistendo in giochi di forte cromatismo tratto da una tavolozza con densi colori gialli-ocra, blu, rossi e verdi. Nel grande “telero” (misura cm 375 x 775) della basilica si può facilmente scorgere il retaggio dei “tenebrosi” di ispirazione caravaggesca. Il brano topico dell’episodio biblico è narrato su un piano frontale, in uno spazio tracciato da una linea diagonale che, partendo dalla figura di Mosè, giunge nell’angolo estremo del lato destro occupato da un anziano assiso. È una composizione molto affastellata, con poche pause, dove l’insieme è delineato per costruzione di gruppi, in un’addizione di profili obliqui, in un sapiente alternarsi luci e ombre, che ora modellano plasticamente i corpi e ora vibrano in un’esaltazione virtuosistica dei panneggi.
Durante l’esodo, per il popolo ebraico si ripresenta, nel faticoso viaggio nel deserto, l’impellenza della sete da cui si innesca un processo di ribellione a Mosè. Dio, per sedare la scontentezza del suo popolo, parla a Mosè dicendo di prendere il bastone con cui ha percosso il Nilo, quella “verga dei prodigi” che già in passato si è trasformata in serpente e che ha aperto le acque del Mar Rosso, per colpire la roccia dell’Oreb: “Ecco io sto davanti a te, là sulla roccia, sull’Oreb; colpirai la roccia: ne uscirà l’acqua e il popolo berrà” (Esodo 17, 1-7). Per S. Paolo l’acqua scaturita dalle rocce dell’Oreb è un simbolo di Cristo, fonte di acqua viva, è l’acqua battesimale che ci disseta con uno stesso Spirito (1 Corinzi 10,4 e 12,13). Nelle rappresentazioni pittoriche di questo episodio biblico compaiono spesso donne che allattano i loro pargoli o che lasciano scoperta la nudità dei seni per sottolineare la corrispondenza simbolica che lega l’acqua pura del battesimo in Cristo e l’indispensabile latte materno per il neonato: l’acqua che Mosè fa scaturire dalle rocce per volere di Dio è nutriente e dissetante come il latte della madre, liquido inteso come fonte vitale per il neonato e per il neo-battezzato in Cristo. Il telero è incorniciato da una decorazione a stucco che presenta, ai lati verticali del quadro, due profeti reggenti cartigli con citazioni bibliche inerenti ai simboli della verga prodigiosa e dell’acqua purificatrice: a sinistra “VIRGAM VIRTUTIS TUÆ EMITTET DOMINUS EX SION. PSAL 109” e a destra “FONS PATENS DOMUI ISRAEL HABITANTIBUS HIERUSALEM. ZAC CAP XIII”.
La prima citazione si riferisce al Salmo 109, attribuito a Davide e dedicato al Messia Re e Sacerdote: “Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: “Domina in mezzo ai tuoi nemici. A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato” (109, 2-3). Mosè, il liberatore del popolo ebreo, è considerato dalla tradizione cristiana come prefigurazione di Gesù. Il salmo messianico celebra la divina regalità e il sacerdozio eterno del Messia-Cristo e, rapportato all’episodio dell’acqua scaturita dall’Oreb, rimanda simbolicamente al re Messia che si disseta per continuare il suo vittorioso percorso verso la Terra Promessa/vita eterna. Il tema della sorgente d’acqua che purifica Gerusalemme trasformandola in un nuovo paradiso è alluso dalla citazione tratta da Zaccaria 13, 1: “In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità”.Nel racconto dell’Esodo, il luogo dove è sgorgata l’acqua dalla roccia viene chiamato Massa (in ebraico significa “tentazione” o “prova”) e Meriba (“lite” o “discussione”), perché qui avviene la contesa dei figli d’Israele con Dio e con Mosè e viene messo alla prova il Signore (Salmo 95,8).
In Il passaggio del Mar Rosso (1682), Luca Giordano dà un posto di rilievo a Miriam, sorella di Mosè, la quale occupa la linea diagonale che porta in alto verso Dio. Ella è colta nell’atto della preghiera, mentre attorno a lei donne e bambini suonano (il bambino raffigurato a sinistra sta suonando uno Schalmey soprano, della famiglia della bombarda), cantano e danzano per festeggiare la liberazione. Nella narrazione biblica Miriam canta accompagnandosi ritmicamente con un top, ovvero un tamburello ebraico (Esodo 15,20): “Cantate al Signore, perché si è mostrato grande: cavallo e cavaliere ha gettato in mare”.
Miriam (è il nome in ebraico di Maria) è una profetessa, una “messaggera di Dio”, considerata dai commentatori cristiani della Bibbia una prefigurazione di Maria. Il nome “Miriam” deriva dall’egiziano “Mara”, che significa “bella”, “formosa”, “sazia”.
Il grande telero è incassato nella cornice a stucco che presenta, a sinistra, un profeta che regge un libro chiuso, mentre a destra Isaia che regge una tavola sopra cui è inciso un passo (11, 15) tratto dal suo libro riguardante il Passaggio del Mar Rosso: “DESOLABIT DOMINUS LINGUAM MARIS ÆGIPTI. ISAIA 11” (“Il Signore prosciugherà il golfo del mare d’Egitto”).
Luca Giordano imposta il grande telero su una composizione dinamica costruita su due diagonali, determinate dalla direzione della luce che colpisce il gruppo in primo piano e le figure di Dio e Mosè. Il quadro è dipinto con vigore plastico, con un forte equilibrio cromatico, con un procedere pittorico a macchia ,che viene espresso stupendamente nella figura dell’Eterno Padre in controluce e nel gruppo di personaggi con gli animali in primo piano.
Il primo piano è occupato da un affastellamento arcaico di figure comprimarie descritte con un poetico realismo, mentre il momento cruciale dell’evento biblico è posto su un piano più arretrato, scandito dal doppio gesto del braccio destro di Dio e di Mosè, proteso in direzione delle acque che si stanno richiudendo sull’esercito del Faraone. Mosè che alza la “Verga dei prodigi” (il “bastone” inteso come insegna liturgica) e che “stende la mano destra” compiendo un gesto rituale, è letto dalla tradizione sacerdotale come un atto che sancisce la vittoria della religione monoteista sugli adoratori degli idoli; la descrizione di questo gesto dal potere taumaturgico è un modo per enfatizzare la solennità di un’azione sacra. Con gli Egiziani alle calcagna il popolo ebraico in fuga pensa che la conquista della libertà porti in sé troppi rischi, che comporti un impegno troppo grande, tanto che molti pavidi hanno presto nostalgia della triste tranquillità della schiavitù; questo episodio, descritto con sapiente lucidità narrativa, è stato letto dai commentatori cristiani come una splendida metafora della difficoltà di liberarsi dalla schiavitù imposta dall’uomo stesso incapace fino in fondo di essere completamente libero.
La chiusura delle acque sull’esercito egiziano mostra ai pavidi la potenza del Signore, tanto che questi, temendolo, credono subito in lui e in Mosè, suo tramite terreno.
Nella tradizione cristiana le acque del Mar Rosso, mezzo di salvezza per gli Ebrei ed elemento castigatore per i nemici egiziani nel momento cruciale che sancisce la liberazione da una schiavitù tramite l’intervento diretto di Dio che salva il suo popolo, divengono un simbolo delle acque purificatrici del Battesimo.
Il racconto del Passaggio nel Mar Rosso, con il cantico di Miriam (Esodo 14,15 – 15,1), viene letto nella veglia pasquale appunto perché il brano è inteso in chiave neotestamentaria come “tipo” del Battesimo (1 Corinzi 10,1-6; Romani 6,3; Apocalisse 15,3) e come un richiamo alla storia della salvezza guidata da Cristo, nuovo Mosè del suo popolo, colui che porta alla liberazione dalla morte.
Nel telero, Luca Giordano evoca in secondo piano questo mistero per mezzo di una luce più flebile che digrada in un’atmosfera ombrosa.
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