testo: VALERIANO IOSCA
Fotografie: GIULIA MARTINELLI, SOFIA TENCHENI
Sirmione è la città di Catullo, una delle città dalle ascendenze liriche più nobili e antiche conservate nella tradizione occidentale. Qui, ai margini dei vigneti di uva Turbiana che dopo il raccolto diventerà Lugana, incontriamo Franca Grisoni, scelta dalla poesia nel dialetto di questa città. “Non è una scelta intellettuale, io sono nata in dialetto – dice Franca –. È stata prima la lingua della famiglia poi lingua della comunità.
Ho imparato a parlare in italiano a scuola, quando ho cominciato sapevo leggere solo qualche lettera. Entrando in classe, sul cartellone con i nomi delle cose, sul disegno del POM c’era la M di mela. Ecco, per me le cose sono in dialetto ma si chiamano in italiano.”
Franca Grisoni ci accoglie sotto un porticato ombroso che si affaccia sul giardino, al centro un grande noce purtroppo malato, sotto al noce un tavolo costruito con una grande pietra, un tempo soglia della chiesa del palazzo divenuta poi la sua casa (la chiesa). È attenta, sensibile e appassionata verso ciò che si muove e vive intorno a lei. A volte prepara strategie e scenari, custodisce luoghi e resta in attesa che questi le si rivelino. Dice di aver portato il giardino all’incolto per accogliere gli incontri amorosi delle lucciole. Ci ha scritto su una poesia e prima di leggerla anticipa: “La leggo prima in dialetto poi in italiano”
Ve ’l paricie el prà
e l’è en scominsià.
Cambie el giardì en cap:
alte le erbe e i fiur
fin che i secarà
a sömenas nel prometis
en qualch’oter dumà.
Ve tendarò.
Riarì a fa bel,
aca chest’an, chí, a sircaf.
Ma sif za chí, tra i vercc
de seze e erbe fresche
coi lüzarì smorsacc.
Col scür vegne a spiaf.
Ve ’mpisarì: en ciel
sbiösit en chesto prà
de lüzarine che trema
el dizarà el bel d’eser spetacc.
Ve lo preparo il prato / ed è un inizio. / Trasformo il giardino in campo: / alte le erbe e i fiori / finché seccheranno / a seminarsi nel promettersi / un qualche altro domani. / Starò appostata. / Arriverete ad accoppiarvi, / anche quest’anno, qui, a cercarvi. / Ma siete già qui, tra i verdi / di siepi ed erbe fresche / con le lucine spente. / Col buio vengo a spiarvi. / Vi accenderete: un cielo / scivolato in questo prato / di lucciole che vibrano / dirà il bello di essere attesi.
Da Le crepe, Collana Gialla Oro Pordenone Legge, Samuele Editore, 2021. p. 73
El vé dal scòl
’n udur de calt
de bagn, de net
e pò sitil ’l se ’ntromet,
l’è apena ’n fil
gnamò sicür, amó sitil
l’udur del corp
amó de net
e pò ’n sospet
d’íga südat
e quand se ’l sènt
gros e font
l’è ’n spaènt
l’udur del corp
de l’animal
sot’a la pèl.
Viene dalla scollatura / un odore di caldo / di bagno, di pulito / e poi sottile si intromette, / è appena un filo / non ancora sicuro, ancora sottile / l’odore del corpo / ancora di pulito / e poi un sospetto / d’aver sudato / e quando si sente / grosso e fondo / è uno spavento / l’odore del corpo / dell’animale / sotto la pelle.
Da La böba, prefazione di Pietro Gibellini, San Marco dei Giustiniani, Genova, 1986, ora in Poesie, prefazione di Pietro Gibellini, Morcelliana, Brescia, 2009 p. 23.
Quella di Franca Grisoni è una poesia di scoperta, di entusiasmo, di stupore per le cose e per la natura. Il punto di vista esce dall’ordinario aprendo un angolo di visuale insolito e profondo. Dopo la lettura in dialetto, la traduzione rimane agganciata e viene trainata dalla forza della parola dialettale appena ascoltata. L’italiano porta il segno dell’essere trasposizione di una poesia nata nei suoni, nella musica e nel ritmo del dialetto, con un effetto molto bello.
Una parola chiave particolarmente significativa e difficilmente traducibile in italiano è tender che vuol dire avere cura, preoccuparsi, ma anche tenere d’occhio, restare attenti, in attesa, appostati. C’è per esempio il tender dalla mamma e il tender del cacciatore nei confronti della preda. Per Franca Grisoni si traduce anche in sensibilità e attenzione verso la comunità e diventa poesia civile sui temi della donna, della malattia, della vita, della morte e della relazione. Porta nella sua poesia la condizione della vecchiaia, dell’emarginazione, dei migranti. Come a farsi carico di una sofferenza, di un dolore ma anche della scoperta della bellezza della consolazione.
“A me è parso e ancora mi pare così, che dire le cose in dialetto sia come chiedere ascolto, chiedere attenzione. Perché la lingua dell’altro è sempre straniera. Credo di non aver potuto altro che scrivere in dialetto.”
En chest’ancö de mars
l’è Gratia Plena
che i moncc, mia pö luntà,
de lüs i è circondacc
curuna lur de ’l lac
che el i a té speciacc
e i boca i pes, ciamacc,
i salta sö a ciapà
bucù de lüs
da portà zo nel fond
pö tenebrus a bazal
per me con ’st’aria ’mpisa.
In quest’oggi di marzo / è Gratia Plena / ché i monti, non più lontani, / sono circondati di luce / corona essi del lago / che li tiene specchiati / e abboccano i pesci, chiamati, / saltano su a prendere / bocconi di luce / da portare giù nel fondo / più tenebroso a baciarlo / per me con quest’aria accesa.
Da Le crepe p. 78
A conclusione della visita andremo anche noi a farci marcare dalla pietra così da possedere, anche se per poco, questa Sirmione.
Zuen e vecc, tus e tuze,
fonne coi sò pütì
lur sé che i gh’à bocat.
La spera de lüs
sperada la i à ciamacc
sura al barcù nel mar
nostrum con i porcc saracc
avert al fond pö tenebrus
che té negata l’aria
’mpisa biida come sal
sensa saur de pa
dai sensa pö laer:
pes engurd i ghe i à magnacc.
E noter a lasai fa. I pes ca
i riconosarom pö
pariciacc nei piacc.
Giovani e vecchi, ragazzi e ragazze, / donne con i loro bambini / loro sì che hanno abboccato. / Il raggio di luce / sperata li ha chiamati / sul barcone nel mare / nostrum con i porti chiusi / aperto al fondo più tenebroso / che tiene annegata l’aria / accesa bevuta come sale / senza sapore di pane / dai senza labbra: / pesci ingordi gliele hanno mangiate. / E noi a lasciarli fare. I pesci cane / non li riconosceremo più / preparati nel piatto.
Da Le crepe p. 79
In conclusione restiamo in silenzio, agganciati a diverse emozioni e pensieri trascinati dalla lettura in sequenza di queste due poesie. D’un tratto, in casa suona un cucù, è quello senza tempo che Franca imposta affinché non suoni in alcune ore e che dunque si rifà quando meno ce lo sia aspetta. Tempo giusto e tempo sbagliato, tempo per leggere e tempo per ascoltare.
Il tempo per scrivere per Franca è quello giusto, quello che serve, c’è poi il tempo per far sedimentare e maturare la poesia “e alla fine, se manca qualcosa, non è la parola a mancare, ma la cosa.”
Adesso per noi è tempo di andare. Ci aspettano le Grotte di Catullo dove vorremmo chiudere questa bella giornata. Franca prima di salutarci ci racconta che lì sotto a dare accesso al lago, ci sono tutte delle lastre di calcare rosato che bagnandole diventano più scure.
Me l’urme mé col pè
n’urma bagnada
de lac: mache ‘l me segn.
Prea marcada
come la marca me
me za scotada
resiste col saltel
tat isé ‘l düra
el me posediment:
la prea, za söta,
la s’è töda ‘ndré.
Me l’ormo io col piede / un’orma bagnata / di lago: premo il mio segno. / Pietra marchiata / come essa marchia me / io già scottata / resisto col saltello / tanto così dura / il mio possedimento: / la pietra, già asciutta, / si è ripresa indietro.
De chí – Di qui poesie della penisola di Sirmione, Scheiwiller, Milano 1997, ora in Poesie, prefazione di Pietro Gibellini, Morcelliana, Brescia, 2009, p.232
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