Maurizio Donzelli: Vedere col cuore il mondo

testo: MAURO ZANCHI
Fotografie: ELISA CARRETTA, LETIZIA BAROZZI, STEFANO CUCCHIARA, SWAMI COLUCCELLI

Maurizio Donzelli ci ha condotto negli spazi della Galleria Massimo Minini, dentro le opere della sua mostra “Immaginàle”. Il percorso iniziatico parte dall’ingresso principale, che introduce i fruitori nella grande sala espositiva pensata come fosse la navata di una chiesa laica, dentro un senso prospettico implicito, in una sorta di rappresentazione. La presenza dell’oro accoglie l’entrata prospettica di chi arriva nell’ambiente, come se fosse introdotto nella dimensione tipica dei templi e dei luoghi sacrali.

Quale è la tua definizione per il termine “immaginàle”?
La mostra nella Galleria Massimo Minini si intitola “Immaginàle”, una parola che ha tante forme e derivazioni: “immagine” deriva dal termine latino imago, ma a me piace collegarlo anche a himma, una parola persiana sufi che significa “vedere col cuore”. Vedere col cuore è il non vedere più con gli occhi. Questa perdita di attenzione e aderenza alle cose è molto interessante, perché potrebbe essere in fondo lo spirito con cui noi, quando eravamo bambini, forse in una maniera selvaggia, guardavamo e vedevamo il mondo, appartenevamo alle cose e al mondo. L’artista compie quel gesto che ogni persona dovrebbe compiere senza divisioni di ruoli: in fondo c’è l’opera, ed è importante esprimere il pensiero e il desiderio che le cose potrebbero essere viste in maniera differente. Siccome possiamo immaginarla questa possibilità, proprio perché compiamo l’atto di immaginarla è necessario portarla nel nostro linguaggio e quindi vedere col cuore il mondo.

La tua ricerca entra nelle strutture e nelle trame della natura, nelle metamorfosi del mondo. Ciò che rendi visibile pare appartenere a un retaggio della tradizione astrattista, ma se entriamo più in profondità si sente agire una serie di sottili risonanze. Cosa porti in superficie nelle opere di Immaginàle
Concettualmente l’astrazione è un meccanismo che disincarna dal mondo. Non astraggo più l’oggetto della mia attenzione dallo sfondo ma lascio che sia lo sfondo a riconnettermi in un unico oggetto che è il mondo. Per questo è necessario che rimangano un contatto e dei segni, e analogie con il mondo naturale, con il mondo che ci accoglie. E molto spesso questi segni li trovi, diventano quasi risonanze, risuonatori di qualcosa che esiste già nelle strutture della natura. Però non sono indicativi, non sono né l’albero, né il tronco, magari possono essere le fronde, gli insiemi dei tronchi degli alberi, alcuni particolari micro della natura, così come certi particolari macro. Sono attratto da queste visioni e credo che sia molto importante per chi legge il mio lavoro sapere che c’è una aderenza alle cose originarie.

Come fai agire il visibile e l’invisibile nelle tue opere? 
L’invisibile e il visibile sono due termini molto difficili da definire. Li ho provocati spesso nelle mie opere.  Ho intitolato “Visibile-Invisibile” una mostra a Parigi, e “Visibile no” una mostra a Venezia qualche anno fa, dove la negazione nel titolo evocava il no del teatro giapponese. Il mondo del visibile è il nostro mondo. Però c’è una necessità in questo mondo visibile, che è la trasfigurazione: noi dobbiamo trasfigurare il visibile e così appaiono tantissime forme dell’invisibile.  L’invisibile è qualcosa che non è risolto. È come un enigma che non ha una soluzione. Ma questo invisibile non risolto è anche qualche cosa che potrebbe diventare una alterità rispetto al visibile. L’invisibile che non si risolve è il destino di ogni oggetto e di ogni rapporto che noi abbiamo col mondo.  Se noi accettiamo tutte le cose per quello che sono, letteralizzandole, dando loro dei nomi e posizionandole nello spazio e nel tempo per un nostro interesse, facciamo ancora poco, perché le cose sono molto più ricche. Noi le abbiamo sempre arricchire attraverso l’esperienza dell’immaginazione, quindi le dobbiamo reinventare e per reinventarle dobbiamo ricomporle attraverso un meccanismo di un qualche cosa che non c’è e che dobbiamo aggiungere nell’intuizione a ciò che stiamo guardando e vedendo. Questo è un problema generale che riguarda non solo le arti visive ma un po’ tutta la letteratura, la filosofia e soprattutto anche il pensiero contemporaneo, che è troppo chiuso in un materialismo oggettivizzante a cui noi non possiamo più affidarci totalmente, se non vogliamo diventare cosa tra le cose, diventare un oggetto, non avere più nessuna necessità nel mondo. Solo reinventando il mondo noi lo completiamo e ne facciamo veramente parte, e per reinventarlo dobbiamo accettare che ci sia una parte tutta da inventare, che sta dietro.

I lavori della serie Lux Drawing paiono ricodificazioni  di tue opere pittoriche che hai  realizzato precedentemente. Qui utilizzi il medium fotografico con uno statuto  particolare, sostituendo apparentemente un dipinto originale con l’immagine di un suo simulacro.  Ti affidi alla traduzione del “pittorico” con un altro medium, per lasciare in secondo piano la questione legata alla scelta della tecnica realizzativa di un’idea. Cosa hai messo in azione con questa reificazione? Perché hai utilizzato fotografie di tue opere pittoriche e non le opere stesse?
Se io avessi utilizzato le opere originali – diciamo così,  perché questo lavoro è concepito come un’opera originale – sarebbe stata una specie di inventario, avrei messo delle cose che facevano parte del mio lavoro e avreste visto l’installazione come un accatastamento di oggetti. Invece la costruzione è più precisa perché ho voluto raffreddare la pittura che precede questi lavori. Si raffredda e nello stesso tempo si ricompone un’immagine nuova attraverso fotografie ad alta risoluzione rifuse nei polimeri di alluminio. Credo sia proprio una questione di come risolvere il display, ovvero risolvere un concetto attraverso un meccanismo di display e di tecniche pittoriche.  La costruzione qui è molto calibrata, millimetrica direi. Mi piaceva l’idea che ci fosse un “eccetera”, che si vedesse un dietro che prosegue, e quindi un ulteriore eccetera, dove le opere poi fossero condizionate l’una dall’altra, e in questo caso anche che ci fosse una presa di distanza rispetto alla manualità del pittore, rispetto a quel lavoro che si fa col pennello.

Cosa ti ha rivelato la mostra rispetto a quello che prima avevi visto o percepito nelle opere non allestite nello spazio espositivo?
Quando noi artisti concludiamo un’opera diventiamo i primi spettatori di quel lavoro. Forse è l’opera che genera l’artista. Ogni volta che nasce qualcuno potremmo affermare che in quel momento il primo figlio genera la madre, ovvero la mette al mondo nel nuovo ruolo che prima non aveva. Ogni primogenito nel nascere mette al mondo la madre e il padre, perché in effetti questa relazione è intercambiabile. Credo che in fondo ci si possa riconoscere nelle proprie opere, ma non in una maniera totemica. Io non ho mai creduto nell’opera totemica, nel capolavoro, pur avendo ammirato dei veri e propri capolavori. Ho sempre creduto nel concetto di percorso, di attraversamento e di successione. Questa mostra in galleria è un succedersi di tanti oggetti che vanno in relazione tra di loro.