Boschi, birra, pà e strinù: Patafisica di Alessandro Ducoli, l'ultimo dei cantautori selvaggi

Cinico e sentimentale, disincantato e poetico, colto e scurrile: una contraddizione in termini, Ducoli è un animale incatturabile.

testo: ELIA ZUPELLI
Fotografie: GIULIA MARTINELLI, LUCA MULATTI

Lì, nella casa nel bosco, con attaccata la targhetta di “Abbey Road” dei Beatles, appare il Ducoli: metà uomo e metà rasta, enorme quanto basta. Anche la folta barba è rasta. Un gigante: moderno mangiafuoco, tenero, burbero. Ma ha occhi dolci, sorridenti e una cinica, lucida, dissacrante, innamorata, disarmante ironia. Sta lì nel bosco in cui si è autoesiliato da quando, dice, non c’è più libertà nel “tuo mondo”; quando il pensiero che ti circonda si ottunde, è necessario prenderne atto e andarsene. E il Ducoli se ne è andato; con Pita, Pepita, il suo minuscolo Yorkshire, sordocieco, arrivato a noi dal secolo andato. La giornata è bella, un anticipo di primavera e nonostante la temperatura sia bassina, il Ducoli ci accoglie in camicia da lavoro, nel prato antistante la baita, con una tavola sontuosamente imbandita con prodotti indigeni, sapientemente cercati nella sua Val Camonica: “la Camunia”, dice lui. Formaggi di varia natura, salumi, pane vino e birra. Molta birra. Ma lui ci tiene a precisare: “Di bassa qualità e comprata in offerta”. C’è un braciere acceso: serve per lo strinù, a merenda.

Per il pranzo, che seguirà alla colazione, stufato di pollo con cipolle, rigorosamente allevato in natura, cucinato sul fuoco della cucina economica che scalda la baita. Il primo incontro con Ducoli è metafisico: parcheggi l’auto, imbocchi la salita, ti immergi nel bosco marzolino, fresco assai e arrivi alla baita. Lui sta lì, si confonde con gli alberi di cui ha la misura e il mocio vileda in testa a fare da chioma all’alto fusto. Al suo fianco Pepita il suo cane, per contrappunto, minuscolo. Tavola imbandita con ogni ben di Dio, tutto camuno. Il fuoco acceso nel grande braciere. L’accoglienza   calorosa, siamo in molti, studenti e colleghi: il team di moltobene. Un raggio di luce tenta di farsi strada nel bosco, il suo bosco, con le sue piante segnate amorevolmente con lo spray rosso: non vanno tagliate. Le sue piante non vanno tagliate. Come un novello Mosè, nottetempo, spalma sulle piante il colore rosso sangue per proteggerle dalla calamità del taglio. E lo fa con tutte le piante camune. Il suo lavoro, la sua missione: salvare le foreste dai malintenzionati. Insomma c’è qualcosa di salvifico nel suo gesto. Pasquale. Iniziamo a preparare il set (ma la tavola imbandita è perfetta, va bene così); accende il toscano e stappa la bottiglia: azione! Il Ducoli è un fiume in piena; è una contraddizione in termini; un frullatore di condizioni spesso in conflitto tra loro: sentimentale e cinico, disincantato e poetico, rapito da un linguaggio spesso scurrile, ma solo per argomenti colti. Ducoli è un uomo coltissimo: usa moltobene la parola.

La valle degli alieni, quella delle incisioni rupestri, sito Unesco, Repubblica isolata e culturalmente indipendente: non una predisposizione dello spirito.

Dotato di una ironia surreale, anzi patafisica, parla di sé, del suo mondo, dei boschi della Camunia, Repubblica isolata e culturalmente indipendente: una valle lunga e stretta, con un orizzonte ristretto che trova il suo respiro verso il fiume Oglio. La valle degli alieni, quella delle incisioni rupestri, sito Unesco. Ma gli alieni sono loro. I camuni. Ducoli è un alieno. Nel suo tempo.

Ci parla del suo essere esiliato in tempo di Covid, esiliato dal luogocomunismo, da un pensiero unico imperante e massivo che schiaccia tutto, uniforma tutto in una melassa modello discount. Passa dai Dpcm illiberali e irrazionali covid oriented, al battesimo secondo Lauro in rito sanremese: la banalità di un gesto che, secondo lui, è la prova provata dell’assenza di gesto artistico che ben rappresenta plasticamente, il vuoto nella tutina del Pelide Achille. Parla delle sue passioni artistiche e musicali, dal blues al rock and roll, dal folk americano ai cantautori italiani che ama, da Dalla a De André, passando per De Gregori a Piero Ciampi. Ci racconta della sua genesi artistica: la sua vita entra pesantemente nella sua opera, nei testi delle sue canzoni. “All’università a Padova – dice Ducoli – scrivo “Lolita”. “Un album complesso. Lo amo ancora. Lì ho capito la necessità di non scrivere solo una bella canzone, ma di lavorare sull’aspetto lirico della scrittura: fondamentale, necessario”. Dall’energia rutilante, esplosiva, incomprimibile della gioventù, ad un approccio sistemico e lirico. Un equilibrio euritmico. Poi arriva, in modo inaspettato il servizio militare: l’alpino. Inaspettato perché se ne era completamente dimenticato.

“Con il militare, entra a gamba tesa la follia. Lì il cervello per un anno lo consegni allo Stato. Devi sopravvivere ad una situazione particolarmente folle. Poi a Bolzano i bresciani stavano sui coglioni a tutti. Ci trattavano come merde, ma come fai a contenere l’operatività di un bresciano? Meglio: un valligiano? Impossibile. Comunque il problema è che alla fine del tuo anno, il cervello non lo rivuoi indietro! Io sono andato lì con la mia chitarra in spalla. Senza fodero. Gli “anziani” mi guardano e mi dicono: suona. Io suono. Mi requisiscono la chitarra. Te la diamo a fine anno, mi dicono: è meglio. Privo di strumento, mi dedico con metodo, allo studio intellettuale della musica del cabaret milanese: quello del Derby. Il teatro canzone. Jannacci, Fo, Cochi e Renato, i Gufi, Nanni Svampa e l’immenso Gaber.
Ecco, senza chitarra ho scritto, nella mia testa, tutto il disco ‘Malaspina’, con la traccia “Ubriachezza molesta”, dedicata alla figlia del Maresciallo. È un pezzo per voce e citofono: del resto mi avevano ritirato la chitarra. Una struggente dichiarazione d’amore, fatta al citofono di casa della dolce signorina. Volevo ardentemente limonarla. La madre non aveva apprezzato. Nemmeno il padre, a pensarci bene. Comunque il militare finisce. Mi sono divertito moltissimo.

Torno nella mia Valle e iniziano le mie imprese Camunia Oriented con il progetto Bacco il Matto, con Nicola Bonetti, Arki Buelli e una sfilza di musicisti enormi, per la verità. Poi il ‘Bacco’ finisce in qualche strada polverosa, ma con Arki e Massimo Saviola inizio una collaborazione intensa che porta ad ‘Anche io non posso entrare (2000)’ e al disco ‘Taverne, stamberghe, caverne (2003)”. Successivamente, nasce in modo inaspettato “Brumantica” (nel 2006), un album con Tavolazzi, Bandini, Gibellini, Bosso, Galati, Tracanna, Stivala ed altri big.” 

Un’esperienza meravigliosa che Ducoli definisce “una scampagnata di pazzi”, allo studio Filippi di Bergamo… Un disco enorme, con Maddaluna e una sfilza di sontuose canzoni d’autore, compresa una versione suggestiva e intensa della Canzone di Marinella di De Andrè. Un disco notturno, poetico che ti entra sottopelle. Un disco jazz con una band stratosferica, suonato in presa diretta. 

“Mi aspetto qualcosa da questo disco. Del resto sono un ingenuo innamorato. L’ho spedito ai giornali, nessuno mi ha calcolato. In quel momento ho messo via l’ambizione”. 

E ora? 

“Oggi c’è un tasso di analfabetismo siderale. Anche i rapper, prodotto italiano non commestibile, non sanno usare la lingua. Analfabeti. Sono il risultato di questo paese, e di produzioni farlocche che costruiscono prodotti seriali con obsolescenza rapida”. 

Andiamo verso la chiusura: abbiamo fatto colazione, pranzato, lui ha pure suonato la chitarra e cantato. E bevuto, e bevuto e bevuto. 

Ora glielo chiediamo: “Ducoli, sai perché ti abbiamo scelto come argonauta per il secondo numero di moltobene?” 

“Certo – risponde -: perchè sono bello!”

“Ecco Ducoli, appunto. Sei bello, ma Achille Lauro è più bello. E anche Damiano dei Maneskin è più bello e un filino meno robusto”. 

“Ma sono io l’uomo ‘selvatico’ che voi andate cercando. Solo che da troll dei boschi, esuberante e vivace, mi sono trasmutato fino a trasformarmi in un druido sfigato. Ma io sto bene anche qui da solo a fare legna per il fuoco (ovviamente con cervello e piglio d’amore per il bosco). Qui, in Camunia, gli esseri mitologici che forse venivano scambiati per le streghe dei boschi, li abbiamo uccisi tutti. E a pensarci bene, uno scemo come me, nel 1600, sarebbe stato impiccato o bruciato sulla griglia. Oggi no. Nella peggiore delle ipotesi, apro un dibattito. Noi, siamo una valle strana, abbiamo anche le incisioni rupestri con gli alieni che appaiono, magicamente, con il ritiro del ghiacciaio dell’Adamello. E il camuno è storicamente, la prima stirpe europea organizzata. Alla faccia di Ursula Von der Leyen”.

Poi prosegue:

Eravamo io, Bowie, Endrigo e Lou Reed. Sono rimasto io… Fate voi”. 

A fargli compagnia il cane Pepita, l’immancabile sigaro, l’aria balsamica e affumicata dei boschi camuni e naturalmente un frigorifero – “un frigorifero è per sempre” – anche se vuoto sempre o quasi. Glu glu glu. Alla salute! Mondo infame! Pur in questi tempi oscuri c’è un buon motivo per brindare. Contrariamente a quanto sembra, nel caso di Alessandro Ducoli, cantautore, poeta, scrittore, homus selvaticus e animale incatturabile, addirittura si sprecano: anticipato dal singolo “Strega comanda colòr”, realizzato da Wladimir Zaleski con la collaborazione del fumettista Andrea Santonastaso, da Breno al resto del mondo il nuovo disco fluttua già nell’iperuranio e s’intitola “Il Cotone”, collezione temporanea di dodici brani – scolpiti insieme a Valerio Gaffurini, inseparabile compagno di musica e scorribande selvagge, non necessariamente in quest’ordine – che disegnano sentimenti, ritmi e suoni in forma di canzone. Evocando un mix caleidoscopico “solo apparentemente commerciale, che si lascia ascoltare con incredibile leggerezza senza mai cadere nello scontato”, registrato e mixato al Cromo Studio e ai Mac Wave Studios in collaborazione con Paolo Costola, l’album è stato suonato con Nicola Mazzucconi (basso), Alberto Pavesi (batteria), Stefano Grazioli (fiati), Eugenio Curti (chitarre), Stefania Martin (voce e cori); durante la realizzazione dell’album è stato girato un docufilm a cura di Tiziano Sossi, di cui sono già state pubblicate le clip dei brani. E così, quello che nei precedenti album era stato definito “romanticismo approssimativo”, ne “Il Cotone” trova nuove coordinate, rivelando il proseguimento di un viaggio musicale che, iniziato con le atmosfere minimali di “Divanomachia” (2016), e proseguito nello spietato crepuscolarismo di “Diavoli e contrari” (2018), muove ora verso rinnovate latitudini. Lungo cui si schiude un territorio onirico, una dimensione parallela dentro cui addentrarsi come in una selva oscura, tra estasi e tormento, tra massimi sistemi e massima caciara da osteria, tra canzoni e allucinazioni, tra pane, asparagi e salame, sentieri di alberi e sentieri dell’anima, tra visioni radicali, esistenzialismi, nichilismi e sprazzi di pura boutade cui aggrapparsi per sopravvivere a questo mondo cane. Cronache postmoderne di un incontro perpetrato a più riprese, dal Cromo Studio di Brescia al misticismo della Valle. Di seguito un agile resoconto.