Albano Morandi: l'outsider in mostra a Palazzo Martinengo

"Qui non c'è assolutamente nulla di insolito per quanto posso vedere, eppure ardo dalla curiosità e dalla meraviglia"

testo: ELIA ZUPELLI, MAURO ZANCHI
fotografie: GIULIA MARTINELLI, SUSAN PERANI
Video: LIA PIRONI, SIMONE LAURIA

A quarant’anni dai primi sussulti di una ricerca artistica camaleontica e multiforme, condensata e pubblicamente manifestata durante la mostra antologica 1981-2021, allestita nelle scorse settimane a Palazzo Martinengo Cesaresco, l’occasione è stata propizia per incontrare face to face l’artista bresciano classe 1958, originario di Salò. Ricostruendo miti, tipi e archetipi alle radici del suo pensiero e quindi delle sue opere, l’evoluzione del suo linguaggio, la stratificazione della materia e la coerenza, pur nella variazione delle forme e dei risultati estetici, del messaggio e della sua poetica pervasa da una carica eversiva e spiazzante, nonché dalla volontà di porsi da outsider rispetto alle convenzionali categorie della storia e della critica.

Quarant’anni di lavoro, percorsi poliedrici, esperienze trasversali, eppure la medesima parola chiave come centro di gravità (semi) permanente: “meraviglia”. 

Meraviglia perché  credo che nulla più dell’arte debba instillare questa scintilla. La scintilla dell’inaspettato, dell’inatteso, dello stupore. “La presenza dell’assenza”, ovvero trasformare in soggetti e rappresentazioni cose che nella quotidianità  sembrano banali, ma se sottolineate dall’artista svelano angolature nuove, sorprendenti. Capaci di innescare riflessioni, suscitare domande pi  che suggerire risposte; in altre parole, capaci di generare quel senso di meraviglia, appunto, che ci fa sentire vivi.

Come gestisci la traduzione in forma di questa “presenza dell’assenza”? 

La parte concettuale del mio lavoro nasce da un amore profondo per la letteratura di Samuel Beckett, autore cui ho dedicato la mia tesi di laurea, che mi ha insegnato a vedere le cose da una prospettiva diversa. Io lavoro per serie: la mia prima serie di lavori era su carta di riso. E la carta di riso ha al suo interno delle evidenti impurità  e imperfezioni: mi ero creato un telaio di vetro con una luce dietro, sul quale appoggiavo queste carte. Sceglievo alcuni elementi di tali impurità alle quali riconoscevo una valenza formale, successivamente costruivo un movimento pittorico attraverso queste forme. Mi interessava che lo spettatore percepisse questi piccoli segni positivi che in realtà  nascono dall’assenza. Attorno a questo input ho costruito tutto il mio percorso.

Oltre a Beckett, quali personalità hanno più influenzato la tua ricerca? 

Toti Scialoja, che reputo il mio maestro: studiai con lui scenografia all’Accademia di Belle arti di Roma. Poi direi Jannis Kounellis, in assoluto uno dei più importanti artisti contemporanei. E ancora Jackson Pollock, Stanley Kubrick. Amo citare anche Alberto Boatto, che oltre a essere stato un brillante storico e critico dell’arte, lavorò  spalla a spalla con gli artisti della sua generazione, fornendo gli elementi cruciali per poter leggere il contesto di quel periodo.

Cosa hanno per te significato invece altri due pesi massimi della cultura italiana come Albano Carrisi e Gianni Morandi? 

Fondamentalmente mi hanno rotto i cabasisi, come direbbe il buon Montalbano. Da quando sono piccolo tutti mi chiedono: dov’è Romina!?

Tornando a Beckett. Guardando le tue opere sembra che inneschi una trasfigurazione, una sorta di via d’uscita estetica o estetizzante, che poi traduci partendo da un’intuizione concettuale…

Io sono una persona che cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. Dò sempre una possibile via d’uscita alle cose. Per cui la concezione beckettiana di azzeramento totale, di morte dell’universo, la utilizzo come fonte d’ispirazione, perché la trovo da un certo punto di vista molto forte e molto giusta. Poi provo a spingermi oltre. Altri autori come Italo Calvino e Luis Borges hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione. La serie di opere intitolate “eterotropie” intende sottolineare, proprio come faceva Borges, l’importanza di mettere insieme due concetti che pur non avendo niente a che vedere tra loro, quando s’innesca la scintilla, riescono a creare un universo inedito e sorprendente, completamente diverso dalle due matrici di partenza.

Proprio Borges diceva che ogni grande artista, dal momento in cui fa vedere la sua nuova visione del mondo, inventa anche i suoi precursori: facendo un viaggio a ritroso, tu hai scoperto qualche tuo precursore nell’arte del passato?

Ho sempre pensato che l’arte si fondi sull’arte stessa: non è possibile fare arte se non attraverso quella che hanno fatto gli altri. Penso a De Chirico, a Savinio, alla metafisica, al futurismo, esperienze che nelle mie opere ho omaggiato con atmosfere in bilico tra la vita, la santificazione, il grottesco, il gioco. Trovo sia fondamentale vedere e percepire la storia dell’arte come un grande baule a cui attingere per il proprio lavoro.

Artista, ma anche curatore: come concili i due ruoli e che tipo di dialogo hai a tua volta instaurato con le nuove generazioni? 

Per lungo tempo ho insegnato nelle accademie: il rapporto con i giovani dunque sempre stato per me molto importante, centrale: un dare-avere, scambio reciproco, per questo ho sempre cercato di aiutare i ragazzi più meritevoli nell’inserimento nel loro percorso professionale. Ed è questa una delle ragioni che più mi ha spinto a creare “Meccaniche della meraviglia”, che considero, citando Beuys, un’opera di “plastica sociale”. Ho sempre pensato che un artista dovesse ritornare ad avere quel ruolo sociale via via perduto durante il Novecento, in cui si è creata una barriera tra l’arte e l’uomo comune. Ebbene: credo che sia ora di fare in modo che questo solco si rimargini e un modo per farlo è portare delle situazioni artistiche dove queste situazioni artistiche non sarebbero mai potute arrivare. In modo da metterle in contatto con dei fruitori che altrimenti non sarebbero mai andati a cercarle. Così, nel 2003, quasi per gioco, hanno preso forma le “Meccaniche della meraviglia”, un progetto itinerante che va avanti tuttora, mettendo in relazione l’arte contemporanea con luoghi non convenzionali, strani e incredibili, nei quali attraverso l’interazione con opere critiche e intermediali si generano cortocircuiti poetici e nuova empatia.

A proposito di corsi e ricorsi. Nel 2023, quando Bergamo e Brescia saranno capitali della cultura, le “Meccaniche” taglieranno il traguardo dei vent’anni di onorata carriera: stai pensando in grande? 

Esploreremo strade inedite e inedite connessioni, dei progetti sono già  in corso: l’idea è creare una meraviglia ancora più meraviglia.

Non conoscere nessuno in questa città ha impedito al tuo lavoro di crescere?

Assolutamente sì! Ti dirò che in realtà questa è la prima mostra pubblica che io faccio in questa Città.