Misteriosa, austera, emblematica Chiesa di Santa Maria Maggiore

Un' alternanza di rimandi, come fosse una polifonia di voci che parlano con idiomi diversi

testo: ELIA ZUPELLI, MAURO ZANCHI
fotografie: FRANCESCA LAZZARINI, GIULIA MARTINELLI, SUSAN PERANI, LUNA BELOTTI

Misteriosa, austera, la basilica di Santa Maria Maggiore si erge nel cuore di Città Alta, incardinata tra piazza Vecchia e piazza Rosate, nella parte più nobile della Bergamo storica, circondata dalle mura venete. Fu edificata nella seconda metà del XII secolo, l’esterno conserva le linee architettoniche romanico-lombarde originarie, mentre l’interno è decorato in stile barocco (tra 1600 e 1700). La sua centralità urbanistica e religiosa è confermata da due circostanze: la prima è che l’edificio risulta privo di una facciata nel senso tradizionale, ma ne può addirittura vantare due, se tali vengono considerate la parete del lato sud (con il portale “dei leoni bianchi”) e la parete del lato nord (con il portale “dei leoni rossi”). Il tessuto costruttivo murario rivela registri a tempi diversi nell’edificazione, manifestamente condizionata da disponibilità finanziarie diverse: a blocchi grandi, regolari e ben squadrati la parte orientale e quella della prima fascia inferiore; a blocchi più piccoli e irregolari il resto. Caldo e variegato è il colore della pietra arenaria impiegata, dal più morbido giallo ambrato al grigio pietroso. Completa lo slancio raffinato e ascensionale, sulla parete verso piazza Rosate, di una guglia, opera di Anex de Alemania, lo scultore Hans von Fernach proveniente dai cantieri del Duomo di Milano, autore di un tabernacolo cuspidato “nordica freccia a trafori in tanta gravità di compatte forme lombarde”. In seguito alle prescrizioni contenute in due relazioni di Pellegrino Pellegrini Tibaldi del 1576 e del 1580, iniziò la trasformazione interna della chiesa, con la soppressione di tutti gli altari laterali e di tutte le pitture a fresco. Il risultato di questa trasformazione coincide quasi alla lettera con quanto si vede oggi.

Quando ci aprono le porte della Basilica veniamo accolti dal silenzio e da una luce antica e rarefatta.

Il coro della basilica di Santa Maria Maggiore in Bergamo è inteso come un percorso iniziatico per tenere oliata la memoria, per muovere l’immaginazione, per ripassare i concetti teologici e filosofici del primo Cinquecento. Il coro intarsiato con immagini bibliche ed ermetiche, ideate da Lorenzo Lotto tra il 1524 e il 1531, è un caso molto particolare, esemplare della difficoltà a comprendere i significati delle sequenze simboliche conservate nelle costruzioni mnemoniche del pensiero occidentale. La figurazione evocativa del coro lottesco è di matrice umanistica, una macchina combinatoria di alto spessore intellettuale, in grado di dinamizzare il pensiero di un fruitore preparato, e di innescare, fra l’immagine e lo sguardo, un dialogo di natura intuitiva. È una creazione che va al di là della tradizione delle “imprese” – per lo più di stampo ludico, accademico e pedante – che allietavano gli intellettuali e i Signori delle corti rinascimentali del XV e del XVI secolo. Ha lo scopo di apportare qualche illuminazione, qualche vantaggio nella ricerca interiore, favorire il giovamento altrui, trasmettere idee e interessanti intuizioni. È stata pensata, da Lotto e dai suoi committenti, in modo che potesse evocare letture polisemiche, con aperture interpretabili anche secondo la visione neoplatonica, con allusioni ermetiche e astrologiche. Nel coro della memoria alcune corrispondenze sono palesi, altre più criptiche, legate a significati e a relazioni di vicinanza allegorica. Qualcosa torna e sembra incontrovertibile. Ma qualcos’altro invece sfugge sempre a qualsiasi tentativo di inquadramento logico. Qualche coperto simbolico sembra essere stato disvelato. Ma quando si cerca di trovare il senso ultimo, coerente e logico, nella totalità della sequenza simbolica qualcosa riesce sempre a scardinare la presunzione di chi pensa di aver compreso tutto.

Le quattro tarsie poste all’entrata frontale dell’iconostasi rimandano ai quattro cardini del cielo della tradizione neoplatonica, ovvero i solstizi e gli equinozi che determinano il ciclo dell’anno e la scansione della ritualità cristiana e della vita umana, sia a livello religioso sia per quanto riguarda i momenti annuali del mondo agricolo. E questa lettura è nata dalla coerente presenza degli espliciti riferimenti astrologici al segno del Capricorno (accompagnato da Giano-Gennaio e da Acquario) nella tarsia Nutrizione del Lapis, al segno Libra nella tarsia Amor sulla Bilancia, ad Ariete nel coperto simbolico di Caino e Abele in sacrificio, e all’invenzione, più criptica, di una figura inedita di Cancro, qui nelle vesti di un occhio capovolto – con piedi, avambracci e mani – nel sole fiammante, per alludere all’inizio della discesa della luce solare, dopo aver raggiunto l’apogeo, nel solstizio d’estate.

Ma non tutto il percorso del coro segue solo riferimenti al moto degli astri nel cielo. È un’alternanza di rimandi, come fosse una polifonia di voci che parlano con idiomi diversi. E, nell’insieme, queste voci corali mettono in ascolto qualcosa che solo orecchie esperte riescono a comprendere e apprezzare: come fossero armonici che muovono ulteriori frequenze, necessarie per abbellire il carattere e i colori della composizione sinfonica.

Il viaggio indicato da Lotto, che scorre in rapporti di permeabilità tra storie bibliche e riferimenti ermetici, è una progressione della coscienza nella complessa polisemia dei simboli. Per esempio i due coperti simbolici posti sul fronte destro dell’iconostasi (Giuditta e Oloferne, Davide e Golia), oltre a essere letti secondo le quattro chiavi interpretative della tradizione cristiana per narrazioni bibliche, evocano anche riferimenti astrologici, in conformità con la luce dei due occhi di Dio nel cielo, ovvero il sole e la luna. I due episodi veterotestamentari scelti per la sequenza iconografica del coro sono accomunati dall’esemplare taglio della testa. Nella tradizione astrologica occidentale, il taglio archetipale della testa è nella storia mitologica di Perseo e Medusa. Medusa è posta a guardia dei misteri orfici connessi al culto lunare. La sua decapitazione simboleggia il taglio dei raggi lunari (capelli anguiformi), interpretata come la liberazione dell’anima dalla schiavitù. Uccidere il mostro o il nemico gigantesco corrisponde a liberare l’anima dagli ostacoli (psichici o morali), che impediscono l’evoluzione verso uno stato spirituale superiore. Nel caso del coro, le due narrazioni bibliche evocano lo stesso significato, ovvero la liberazione dei cittadini di Betulia dall’assedio dell’esercito assiro-babilonese e la liberazione degli Israeliti dagli attacchi dei Filistei. E il riferimento lunare è chiaramente posto da Lotto nella storia biblica di Giuditta, tutta giocata sugli effetti luministici del crescente nella notte che avvolge l’accampamento dell’esercito assiro-babilonese, e dell’alba che rischiara l’uscita trionfale dell’esercito israelita da Betulia.

Alla luna corrisponde la conoscenza riflessiva della memoria, dell’inconscio e dell’immaginazione. La presenza di Giano nella tarsia de La nutrizione del Lapis, accanto a quella di Giuditta, richiama anche la figura di Jana bifronte, ovvero la luna bipolare (crescente/calante), guardiana delle porte del Cielo e dell’Inferno.  Nell’Adorazione del serpente di bronzo (1527) la verga dei prodigi che batte il drago alato tra capo e coda potrebbe alludere al potere del mago Mosé, in grado di sfruttare il ciclo della luna, tra l’orbita e l’eclittica: nella tradizione astrologica il nodo lunare ascendente, ovvero da sud a nord, è denominato Caput draconis, mentre il nodo lunare discendente, quello che si sposta da nord a sud, si chiama Cauda draconis.

La conoscenza dell’influenza lunare sulle acque terrene avrebbe permesso a Mosè di sfruttare al meglio il moto delle maree attraverso l’attraversamento del mar Rosso. Forse non a caso il pannello simbolico dell’Adorazione del serpente di bronzo è stato collocato proprio dietro La sommersione di Faraone. In un’ottica neotestamentaria, l’immagine del serpente di bronzo sul tau è letta come prefigurazione della figura salvifica di Cristo sulla croce. Così come Dio ha salvato gli ebrei morsi dai serpenti velenosi – sono guariti guardando con fede il serpente di bronzo innalzato sopra un’asta (Numeri 21, 4-9) – allo stesso modo il Padre salva dalla morte i fedeli che guardano con fiducia Cristo sulla croce. Il popolo ebraico, che si salva dalla schiavitù e inizia il viaggio verso la terra promessa, è qui metafora dell’esodo del fedele, nella sequenza simbolica del coro, per giungere all’ottenimento di un’evoluzione spirituale salvifica. E nella visione neoplatonica ogni buona scienza – filosofia, teologia, mitologia, ermetismo, qabbalah, alchimia, astrologia, matematica, geometria, simboli, imprese, geroglifici – può essere un mezzo per approdare alla conoscenza superiore.